La violenza: a volte scomoda, altre necessaria, giustificata ma anche condannata; compagna di tutta l’umanità. Sarebbe difficile trovare un libro di storia che non riporti fatti violenti che abbiano fortemente condizionato la vita degli uomini. Le guerre ne sono un classico esempio, siano esse moralmente “giustificabili” come la Seconda Guerra Mondiale, o meno, come quella del Vietnam.
Il 900 è stato uno dei secoli che ha maggiormente vissuto il tema della violenza della guerra propagarsi, tanto che Tzvetan Todorov lo ha definito come il “secolo delle tenebre”. A una prima lettura un simile appellativo potrebbe sembrare esagerato ma, se si considera la realtà dei fatti, l’impegno nello sterminio di grandi masse di persone è stata senza precedenti [cfr. Dei, 2005].
Un tratto peculiare che accomuna le guerre “moderne” sembra essere il tema dell’identità.
Non a caso il linguaggio giornalistico e l’opinione pubblica si soffermano infatti sempre più spesso sul conflitto etnico, inteso come scontro tra gruppi definiti su basi di appartenenza pre-politiche (quindi uniti da sangue, lingua, religione ecc.) concepite come “patrimonio primordiale”, causato spesso da odi ancestrali, che ciclicamente sembrano riemergere; « in molti casi una simile concezione primordialista dell’appartenenza e del conflitto è esplicitamente sostenuta e usata come forza ideologica e strumento di consenso dalle parti in lotta» [Dei, 2005:24].
Nonostante l’antropologia come disciplina si sia negli ultimi decenni battuta nell’elaborazione di una nozione pluralista di cultura (dove tutte le culture possano godere di pari dignità), nazionalismi e fondamentalismi si sono appropriati della presunta “naturalizzazione” delle culture: «culture e identità sono state intese come essenze più o meno immutabili, quasi naturali, non costruite nella storia e nei rapporti politici […]. Una volta naturalizzati tali concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e intolleranza» [Ivi, 2005:25]. Le politiche dell’identità possono essere, e spesso lo sono state, strumenti della violenza.
L’esplodere dei conflitti sembrerebbe dunque legato in un certo senso alla scoperta “dell’altro”.
In quanto diverso con la sua presenza costante nel tempo e diffusa su un territorio “l’altro” innesterebbe un processo di ridefinizione delle identità e delle dinamiche di interazione tra connazionali e stranieri [cfr. Cammarata, 2004].
Arjun Appadurai tuttavia rifiuta l’idea di una conflittualità radicata nelle appartenenze locali come fondatrice dei conflitti etnici, inserendoli piuttosto nel quadro delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dal culturalismo [cfr. Appadurai, 2012], definito allo stesso autore come «deliberata mobilitazione delle differenze culturali al servizio di più vaste politiche nazionali e transnazionali» [Appadurai, in Dei, 2005:40].
Appadurai tenta di slegare la frenesia della violenza etnica dalle “certezze” identitarie, legandola piuttosto alle incertezze che il mondo contemporaneo esperisce a proposito delle identità; «mentre la gente si sente sempre più definita in termini di macro-identità inventate dagli stati nazionali, i criteri per determinare l’appartenenza o meno a esse di specifici individui o gruppi sono sempre meno chiari […]. Le mappe corporee e caratteriali così tipiche del repertorio dei nazionalismi, classificando ogni individuo sotto la sua grande categoria etnica, non sembrano più consentire un sicuro riconoscimento» [Ivi, 2005:41].
Etienne Balibar osserva come le guerre etniche abbiano reintrodotto nel mondo (dopo la Guerra Fredda) il genocidio, mascherandolo col termine “pulizia”. La pulizia etnica è un qualcosa che viene soprattutto teorizzata prima di essere posta in essere in tal modo il passaggio all’azione si presenta come combinazione di sogno e raziocinio [cfr. Balibar, 2005].
Tale processo si presenta come di uniformazione e assume diverse forme [cfr. Hayden, in Dei, 2005]: nei territori dove il gruppo dominante è già maggioritario i mezzi possono essere legali e amministrativi, come ad esempio limitarsi a respingere domande di cittadinanza, nei territori misti invece l’uniformazione richiede misure drastiche come l’espulsione fisica o lo sterminio del gruppo di minoranza. «Concettualmente potremmo considerare la violenza della pulizia etnica come lo scontro tra un modello prescritto di cultura (intesa come ideologia) e la realtà socio-contestuale (la cultura vivente) che non si accorda con la prescrizione» [Ivi, p.147], il tutto in virtù di ciò che Verena Stolcke definisce «fondamentalismo culturale» [cfr. Stolcke, in Dei, 2005].
La pulizia etnica si fa strada spesso all’interno delle stesse istituzioni.
Robert Hayden mostra ciò prendendo in esame le costituzioni delle repubbliche succedute allo Stato della Jugoslavia e concentrandosi su come esse siano espressione istituzionalizzata di ideologie etniche. La Croazia, ad esempio, è definita costituzionalmente come stato-nazione del popolo croato [cfr. Costituzione della Repubblica Croata] e «quando una costituzione si “immagina” uno stato che escluda alcuni residenti del suo corpo politico o sociale […] allora gli articoli di quella costituzione contengono già in sé le premesse di una violenza sociale che può diventare cruenta» [Hynden, in Dei, 2005:150].
Ancor oggi viviamo in un’epoca in cui la violenza, nonostante faticose campagne di sensibilizzazione sui diritti umani e il rispetto culturale, è soprattutto di tipo razziale, etnica e religiosa. Un’epoca dove l’identità è ancora simultaneamente, o consequenzialmente, uno strumento da utilizzare e una posta da mettere in gioco [cfr. Cammarata, 2004] nonostante sia, come affermato da John Bowen [cfr. Dei, 2005] erroneo affermare che le diversità etniche portino con loro instabilità politica e alte probabilità di esplosione della violenza. Non a caso alcuni degli stati più multiculturali del mondo, come ad esempio il Pakistan, hanno in realtà conosciuto in minima parte la violenza interetnica, mentre al contrario è proprio in paesi omogenei per lingua o cultura (come la stessa Jugoslavia, il Ruanda o la Somalia) che si sono verificati i conflitti più cruenti.
Bibliografia
Appadurai, A., Modernità In Polvere , Cortina Raffaello, 2012
Balibar, E., “Violenza: idealità e crudeltà”, in Héritier, F., (a cura di), Sulla violenza, Meltemi, Roma, 2005
Cammarata, S., “I conflitti interetnici. Strategie d’identità e acquisizione dei diritti”, in Quaderni di Sociologia, 2004
Clastres, P., Archeologia della violenza, Meltemi, Roma, 1998
Dei, F., “Antropologia della violenza nel XX secolo” in Masotti, F., a (cura di), Le guerre del XX secolo e le violenze contro i civili, Aracne, 2004
Dei, F., (a cura di) Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005
Taussig, M., “Cultura del terrore, spazio di morte”, in Dei, F., (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005