La storia dell’antropologia è ricca di collezioni che si sono susseguite nel corso del tempo in vari musei europei, difatti l’antropologia culturale si è anche configurata come una modalità di raccolta di reperti derivanti da varie parti del mondo e da gruppi sociali e sistemi politici differenti. Molti furono i ricercatori e studiosi che diedero particolare attenzione alla cultura materiale dei popoli studiati ma fu a partire dal XIX secolo in Inghilterra che il generale Pitt Rivers ebbe l’idea di creare musei in cui esporre opere d’arte e di “tecnologie primitive” [cfr. Fabietti, 2011].
Collezionare è un’azione tanto antica quanto articolata che si iscrive nelle modalità che l’uomo ha per conoscere ciò che gli sta attorno, stabilire un criterio organizzativo dell’esperienza nel mondo e costruire sé stesso [cfr Bargna, 2016]. Il collezionare non è dunque solamente un “raccogliere in una collezione”, come suggerito dal dizionario Treccani, ma un vero modo di organizzare il mondo [cfr. Miller, 2013].
Le collezioni non solo permettono di accumulare oggetti importanti, cari e significativi per il collezionista ma gli consentono anche di essere inserito all’interno di una particolare collettività che si identifica specificatamente con l’oggetto da collezione. Come sottolineato da Miller «gli oggetti sono importanti non perché sono evidenti e creano limiti o possibilità fisicamente visibili, ma proprio per il motivo contrario. Accade così proprio perché di solito noi non li vediamo. Meno siamo consapevoli della loro presenza, più potentemente riusciranno a determinare le nostre aspettative, dando forma alla scena e garantendo un comportamento appropriato. Hanno il potere di determinare quello che accade fino al momento in cui rimaniamo inconsapevoli di questa loro capacità» [Miller, 2013:47].
Sebbene definito solitamente come un hobby, il collezionismo è un fenomeno estremamente complesso.
Fa dialogare diverse dimensioni fra cui anche quella della dipendenza e dell’identità, allo stesso tempo individuale e rinegoziata collettivamente sia nei confronti di coloro che fanno parte del gruppo dei collezionisti, sia nei confronti di tutti gli altri che ne sono esclusi.
L’identità viene continuamente rinegoziata, perfezionata, decostruita da parte dell’individuo in dialogo o in contrasto con il mondo che egli stesso costruisce e da cui viene costruito, dunque la collezione non si configura in questo senso solo come un insieme di oggetti raccolti seguendo uno specifico criterio e buttati alla rinfusa da qualche parte [cfr Bargna, 2016], ma diviene una modalità di ordinamento del mondo e di investimento non solo economico, ma anche del sé: il collezionista riversa una parte di sé nella propria collezione.
Un altro aspetto del collezionismo è il suo potenziale di dipendenza.
Per quanto riguarda le collezioni a potenziale illimitato (collezioni pop: set Lego, carte, Funko Pop, etc.) figlie di un’incessante produzione capitalista di tale bene e di un marketing feroce e martellante, queste possono facilmente deviare nella dipendenza: sono rivolte ad un pubblico fortemente mediatico, millennials ma non solo, con un potere di acquisto altalenante causato da un mondo del lavoro instabile, ma con un forte bisogno identificativo.
Collezionare diviene dunque un atto politico potenzialmente infinito: si mette ordine, coerenza e logica in un mondo che spesso sfugge fra le mani. La sicurezza derivante dalla collezione pop dipende dalla logica cadenza prefissata delle uscite di un nuovo set Lego, della remaster di un videogioco tanto atteso, di nuovi elementi nel mazzo, innovazioni costanti, minuscole in alcuni casi, ma che annunciate sotto forma di evento imperdibile spingono i collezionisti pop a “tenersi pronti” per l’uscita.
Il caso della danese Lego è emblematico in questo senso. Sul sito ufficiale si può leggere la storia della casa di produzione del famoso mattoncino, nonché tutte le innovazioni apportate nel corso del tempo. L’azienda si è espansa moltissimo dall’anno di fondazione, 1932, differenziandosi dalla concorrenza dal punto di vista ingegneristico e innovativo. Come analizzato da Mark Wolf [2014], l’azienda vive una vera e propria rivoluzione nel momento in cui si affaccia al mondo online nel 2005; sebbene questa virata nel mondo videoludico non sia stata calorosamente accolta da tutta la fandom Lego ha però segnato una svolta ufficiale dal punto di vista del marketing, del merchandising e della narrazione del prodotto Lego. Nel 2005 anche la saga cinematografica di Star Wars ha una svolta, e come raccontato anche dal famoso prodotto Netflix “I giocattoli della nostra infanzia”, le due linee di produzione, Lego e Star Wars, fortificano la loro unione. I set Lego di Star Wars erano già in produzione dagli anni ’90 ma è a partire dal 2006 che la collaborazione fra le due grandi imprese diviene più redditizia e fonte di continua e reciproca ispirazione. Wolf dedica difatti il settimo capitolo del suo lavoro a “LEGO Star Wars: The Video Game” sottolineando l’importanza del passaggio al videogame, uscito nel 2005 e sviluppato da Traveller’s Tape, che dà una nuova spinta alla collaborazione fra i due mondi creativi.
Nel 2013 Lego debutta sul grande schermo con un’opera singolare, per complessità di realizzazione e target di riferimento: The Lego Movie. Come sottolineato dal The Guardian all’uscita del film in sala: «what really makes the film work is that it represents the highest form of capitalist expression: it is a commercial». I film sono un prodotto integrativo del mondo educativo e ingegneristico della casa di Billund ma che oltremodo hanno contribuito ad un’ulteriore espansione dell’impero Lego in tutto il mondo e hanno inoltre alimentato il sentimento nostalgico nei Millennials e nella Generazione Z, coloro che sono nati negli anni ’80.
Il mondo AFOL, Adults Fan Of Lego, è potuto uscire da ciò che viene definita “Dark Age” ed entrare in una nuova “Golden Age” in cui il sentimento verso il mattoncino non è più dominato da una sensazione di vergogna, inadeguatezza e infantilismo, ma anzi da una consapevole passione per l’oggetto della collezione; il collezionare set Lego in questo caso si sposa con l’importanza per gli AFOL di far parte di una comunità che condivide interessi, valori, meme, gif e riferimenti cinematografici comuni alla cui base c’è la voglia di fare nuove amicizie e l’iconico mattoncino. Molti AFOL sono collezionisti e lo sono divenuti attivamente a partire proprio dalla costruzione del multi-fenomeno Lego fra 2013 e 2015. Sebbene non tutti coloro che si identificano come AFOL sviluppino una dipendenza dalla collezione e dall’atto del collezionare in sé, vi è però la possibilità che questo infici anche le relazioni sociali. Sono molti i meme e le gif, nonché le storie personali, narrate sui gruppi chiusi di Facebook in cui i collezionisti si scambiano opinioni sui set, sui film e in generale sui prodotti Lego che fanno riferimento situazioni famigliari di “saturazione” dello spazio e della disponibilità degli altri, i non collezionisti, ad accogliere in casa queste collezioni.
Secondo alcuni studiosi si può parlare di «dipendenza patogena» con cui «si intende una condizione morbosa ad elevato grado di complessità che può generare sofferenza a vari livelli, nell’individuo, nel contesto familiare e in quello sociale» [Mangiaracina et al., 2011]. La dipendenza dal collezionare, non dalla collezione in sé, diviene dunque palese quando qualsiasi attività “altra” viene inficiata dal dover comprare questo o quello oggetto che rientrerà nella collezione, dal dover contrattare online con altri venditori-compratori, dalle chiamate di altri collezionisti al fine di confrontarsi su un pezzo in uscita. Potrebbe essere solo la passione per quell’oggetto da collezione a spingere i collezionisti ad agire in questi e altri modi anche durante altri tipi di attività, eppure spesso si sente il bisogno di continuare ad alimentare la collezione, migliorarla, ampliarla, catalogarla nonostante non vi sia più la voglia: «Ci si pone allora l’ipotesi dello sconfinamento in un ambito di patogenicità, specie quando emergono disfunzionalità familiari, lavorative e sociali, che esprimono aree di sofferenza» [Ivi].
Come riportato da Mangiaracina, il collezionismo può rivelare diversi significati interessanti.
Può essere considerato un atto di evasione per cui il collezionista si ritira nel suo mondo dove si sente al sicuro, appagato, al riparo dalle delusioni della realtà e dalle responsabilità; oppure un atto di possesso durante il quale prova piacere nel possedere oggetti per lui/lei autentici e attraenti; può anche essere un modalità di espressione tramite la quale cela parte della sua personalità dietro gli oggetti collezionati, per essere se stesso in un modo personale e segreto; può anche rappresentare una compensazione grazie al quale il collezionista si sente al sicuro nel suo privato, compensa le gioie di una realtà assai difficile da gestire; o ancora può essere comunicazione e condivisione che gli permettono di trovare nel suo mondo persone con cui condividere la passione, dove è più facile comunicare e scambiare idee, celando una personalità schiva e riservata, che raramente fa sfoggio della collezione in quanto ne è geloso e vuole proteggerla; può essere una distrazione grazie alla quale si immerge nel suo mondo, si astrae e dirotta i pensieri legati alle difficoltà della vita quotidiana; infine può anche assumere lo statuto di “affermazione culturale” per cui collezionare oggetti d’arte, di antiquariato, numismatica e filatelia, è conoscenza, rende capaci di collocare l’oggetto nel tempo, con una storia e una vita propria.
Ecco dunque che quando si parla di collezioni museali la dinamica dell’identità e della dipendenza vengono meno proprio perché rinegoziate all’interno di una grande istituzione politica, economica e culturale che deve rispondere a bisogni molteplici [cfr Clifford, 2010]. Ma nel caso delle collezioni pop, in cui la rispondenza economica è personale ed in cui il valore culturale è riscontrabile nella dinamica noi-gli altri, il collezionare diviene facilmente una dipendenza che permette di ordinare, catalogare precisamente e mettere in sicurezza almeno una parte della realtà in un mondo in costante fluttuazione e insicurezza.
Bibliografia
Bargna I., 2016, Collecting Practices in Bandjoun, Cameroon: Thinking about Collecting as a Research Paradigm, African Arts, University of California
Clifford J., 2010, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino
Fabietti U., 2011, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna
Mangiaracina, G., et al., 2011, Nuove dipendenze: dalla relazione oggettuale al collezionismo patogeno, pp. 20-35, in Tabaccologia, Vol. 3, online publication
Miller D., 2013, Per un’antropologia delle cose, Ledizioni, Milano
Wolf J. P. M., 2014, LEGO Studies. Examining the Building Blocks of a Transmedial Phenomenon, Taylor and Francis Group
Sitografia
“Exit the Dark Age”, di Padulano, J., 2015 : https://itlug.org/2015/03/exit-the-dark-age-una-storia-afol/
“The Lego movie isn’t great film, It’s a brilliant commercial” – The Guardian, 2014 : https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/feb/19/lego-movie-is-great-commerical
Wirwd.it, Zorloni, L., 2017 : https://www.wired.it/amp/174458/economia/business/2017/03/09/lego-fatturato-2016/#aoh=15740728962946&referrer=https%3A%2F%2Fwww.google.com&_tf=Da%20%251%24s
Molto interessante!