Sei un “buon educatore” e un “buon genitore”?

Fare il genitore è una competenza che viene naturalmente, oppure è necessario impararla?

Questa è solo una delle domande, di difficile risposta, che Marc. H. Bornstein si pone nello scrivere la prefazione dei quattro volumi che compongono l’Handbook of Parenting (1995).

Nell’ambito dello studio sullo sviluppo infantile e sui fattori che lo influenzano, è stato attribuito un ruolo sempre maggiore ai genitori e alle modalità con cui essi si prendono cura dei figli; per questo le numerose ricerche in questo campo hanno cercato di definire unilateralmente il concetto di Parenting: la capacità di un genitore di soddisfare i bisogni fondamentali del proprio figlio, da un punto di vista sia fisico (alimentazione, pulizia, salute), sia psicologico (sicurezza autonomia, indipendenza) (Sponchiado, 2000).

Generalmente, esistono due dimensioni ascrivibili al parenting: quella del saper rispondere ai bisogni del figlio, supportandolo nel promuovere comunque la sua individualità, e quella di porre dei limiti, intesi come il formulare richieste di maturità e controllo del comportamento.(Baumrind, 1991, p.62)

Alcuni altri autori (Daling, Steinberg, 1993; Stevenson-Hinde, 1998, Stewart, Harris Bons, 2002) hanno proposto di suddividerlo invece in altri due costrutti: la pratica e lo stile genitoriale. Proprio a partire da questo, alcuni autori si sono concentrati sull’individuare una sorta di stile ideale, quello del “buon genitore”, che favorirebbe uno sviluppo sano ed adeguato delle competenze infantili. In una prospettiva pedagogica, però, preme allora passare in rassegna proprio quello che da questo ideale si allontana, per informarsi e soprattutto rendersi consapevoli.

Tra le dimensioni individuate da Baumrind (1971), possiamo individuare un primo elenco di stili parentali:

  •  Stile autoritario: i genitori che lo adottano sono caratterizzati da una continua ricerca d’affermazione del proprio potere, da atteggiamenti distaccati, scarso interesse per l’opinione del bambino, mostrando di rado interesse e piacere per i suoi risultati. Ne conseguirà rigida disciplina, forte gerarchia familiare, pretesa di confermazione delle proprie idee e severi confini all’autonomia. La risultante potrebbe essere un bambino sgarbato, insolente, incapace di intrattenere relazioni stabili, aggressivo e spesso isolato. Poco curioso, rischierà anche bassa autostima; rispetterà l’adulto per timore della punizione, ma potrebbe essere poco abile nel concepire i significati delle regole.
  • Stile permissivo: presenta una tendenza all’accettazione eccessiva e non punitiva, consultandoli spesso ed allo stesso tempo lasciandoli soli nel regolarsi; questo stile tuttavia, è associato ad un maggiore calore affettivo e vicinanza emotiva. Questi genitori meno severi, risultano poco coerenti, considerandosi più come una risorsa a disposizione del figlio, più che parte attiva della sua regolazione. Le basse richieste e la maggior accoglienza, riducono però la presa di controllo e questo potrebbe portare i bambini ad avere meno obiettivi e, qualora i genitori permissivi fossero anche freddi e distaccati, ad essere possibilmente poco assertivi, aggressivi, immaturi e capaci di manipolare gli adulti stessi.

Anche Maccoby e Martin (1983), a partire dalla descrizione della Baumrind sopra riportata, hanno introdotto un terzo stile disadattivo:

  • Stile trascurante e di rifiuto: si contraddistingue per una condotta disimpegnata del genitore, in relazione sia alla dimensione di calore affettivo sia a quella della permissività/severità. E’ tipica di quel genitore che tende a rifiutare la propria responsabilità educativa e dunque non si mostra nè ricettivo, nè esigente. Non controlla le attività del bambino, non lo sostiene e tende a fornire pochi strumenti di comprensione del mondo con le sue regole sociali. Non ne promuove lo sviluppo, poiché non in grado di fornire regole sensate e criteri realistici d’interazione. I bambini potrebbero manifestare una notevole immaturità sia cognitiva, che sociale.

Hoffman (1988), in una prospettiva leggermente diversa, descriverà invece le modalità di persuasione che i genitori utilizzano nell’interazione con i figli:

  •   Stile educativo costrittivo/potere fisico: potere fisico, punizioni, privazioni di oggetti cari, attività piacevoli, incontrare amici, il tutto per controllare il bambino tramite autorità, forza, superiorità fisica. Ed è senz’altro lo stile che provoca più svantaggi; dialogo ignorato, nessuna spiegazione e spunti di riflessione, per cui nessuna possibilità per il figlio di apprendere comportamenti alternativi, fino alla possibilità di ostacolarlo nello sviluppo di una propria autonomia morale.
  • Stile educativo costrittivo/sottrazione d’affetto: privazione della stima, dell’attenzione e sull’ignorare i tentativi del bambino, espliciti o solo abbozzati, di riconciliazione, del distanziamento affettivo quando il bambino è ansioso o cerca sostegno, sull’uso di espressioni che segnalano sentimenti di rifiuto e abbandono: “se fai così non ti voglio più bene”, “adesso ti arrangi”, “via via, non ti voglio più vedere”. Anche in questo caso, il bambino potrebbe sperimentare paure di abbandono, separazione, interiorizzandole come ineluttabili. Tenderà probabilmente a reprimersi pur di non ricevere rifiuto, non elaborando le proprie colpe e cercherà di ottenere l’approvazione altrui trattenendosi.

Ma di fatto, come avvicinarsi invece all’ideale del “buon genitore”?

Per riassumere, quello che educativamente si consiglia, è di attivare uno stile autorevole, in termini baumrindiani e uno stile educativo induttivo o ancor meglio, empatico-emotivo, per dirla alla Hoffman: ci si approccerà alla relazione con il proprio figlio attraverso il ragionamento e sul dialogo persuasivo di tipo razionale, stimolandolo a riflettere e spingendolo a comprendere e dunque introiettare le regole, al fine di permettergli una presa di responsabilità del proprio comportamento. Il dialogo sarà inoltre improntato a far emergere i sentimenti e le emozioni, che aiutano a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni per sè e persino l’impatto sugli altri, favorendo una corretta socialità e abilità cognitive di meta-riflessione. Alla base, sostituire autorevolezza ad autorità, significa incoraggiare questa comunicazione e questo dialogo, considerandoli fondamentali per l’espressione di maturità e d’indipendenza. Ugualmente, le richieste del genitore saranno calibrate, adeguate, sempre motivate e si eviterà di utilizzare punizioni basate sulla minaccia come strumento migliorativo. Si potrà così esercitare un’autorità sul figlio, senza prevaricarne diritti e mostrando contemporaneamente un adeguato calore affettivo; si incoraggeranno e riconosceranno le qualità del piccolo, le scelte autonome, pur fissando dei limiti e degli standard comportamentali, fornendo esempi e modelli di identificazione adeguati e non minandone l’autostima. La risultante, sarà un bambino in grado di adeguarsi autonomamente alle regole, equilibrato nella gestione delle emozioni, supportato ed al contempo amato, fiducioso nelle proprie possibilità di autodeterminazione, perché in grado di comprendere le proprie responsabilità ed il proprio posto nel mondo.

Federica Mozzali

Info

 

 

 

Bibliografia

Di Blasio, P., Tra rischio e protezione. La valutazione delle competenze parentali, Ed. Unicopoli, Milano, 2005

Baumrind D., Current patterns of parental authority. Developmental Psychology Monoghraphs, 1971

Maccoby E.E. – Martin J.A., Socialization in the context of the family: Parent-child, 1983

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