Gli esseri umani sono entità fisiche, pertanto descrivibili e quantificabili, ma se si considerano non solo dal punto di vista puramente materico e quindi piuttosto come processi esistenziali, culturali e con un impatto sociale, allora anche un binomio come quello salute/malattia andrà considerato in questi termini e non solo in quanto condizioni puramente fisiologiche.
Tutte le definizioni di salute e malattia appaiono improntate sulla relativa opposizione, basate quindi l’una sull’esclusione dell’altra [cfr. Pizza, 2005]: si sarà malati in assenza di salute e viceversa sani in assenza di malattia. Il concetto può sembrare di immediata comprensione ma quando si tenta di superare alcuni rigidi confini molto ben delineati, soprattutto da tutta una serie di ruoli sociali, poteri e istituzioni, ci si imbatte in un altro binomio, altrettanto difficile da definire, ossia il rapporto tra normalità e anormalità [ibidem].
Partiamo dalla base, dalle definizioni1:
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Salute: stato di benessere di un organismo o di una parte di esso, caratterizzato da una funzione normale e non affetto da malattie.
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Malattia: condizione che altera o interferisce con lo stato di salute di un organismo e generalmente caratterizzata da un anomalo funzionamento di uno o più sistemi, parti o organi.
In base a queste definizioni si può notare come la malattia venga definita oggettivamente, come un fatto reale e concreto, mentre la salute come uno “stato” di benessere che apre a possibili paradossi e contraddizioni poiché in biomedicina2 lo “stare bene” non è detto coincida col “sentirsi bene” [cfr. Pizza, 2005].
All’interno della riflessione antropologica, sviluppatasi soprattutto in seno alla cosiddetta “scuola di Harvard”, si fa largo una preziosa distinzione,una “tripartizione” dell’esperienza di malattia, espressa attraverso l’uso dei concetti di illness, disease e sickness [cfr. Kleinman, in Quaranta, 2006].
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per illness si intende la percezione, ossia l’esperienza esclusivamente soggettiva del vissuto della malattia;
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per disease si intende la malattia in quanto patologia, pertanto la sua espressione “quantificata” e “quantificabile”, nonché osservabile, in quanto anormalità di un funzionamento fisiologico;
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attraverso il termine sickness infine si individua l’aspetto “sociale” della malattia, in quanto essa è un’esperienza che coinvolge anche il gruppo sociale a cui appartiene il malato (famiglia, amicizie, colleghi, ecc).
Siamo di fronte a un campo complesso non solo da analizzare ma probabilmente anche da visualizzare e circoscrivere.
Non a caso Hans-Georg Gadamer afferma come la salute sia qualcosa di “segreto” in quanto essa, in realtà, non si manifesti, resti silenziosa, fino a quando la sua percezione non viene resa consapevole dall’arrivo della malattia. L’autore investe quindi la malattia stessa di una sorta di primato perché è attraverso di essa che si impara cosa sia la salute; semplificando con un esempio: mi accorgo di aver fatto indigestione solo nel momento in cui ho la nausea o avverto dolore allo stomaco [cfr. Gadamer, 1994]; tuttavia, come indicato da Emile Durkheim, nonostante la sofferenza sia solitamente guardata come il segnale della malattia, poiché in generale esiste una correlazione, si tratta di uno stratagemma valutativo che manca di precisione e accuratezza: esistono infatti casi di patologie che non si manifestano immediatamente attraverso il dolore e viceversa esistono disturbi di scarsa importanza che al contrario ne generano in gran quantità, senza poi trascurare quegli stati dove il dolore è considerabile “normale” come il caso del parto [Durkheim, in Gadamer, 1994].
Salute e malattia, come del resto normalità e anormalità, sono norme prestabilite [cfr. Pizza, 2005].
Lo stato di salute è variabile, non solo accostando diverse società e diversi periodi storici [cfr. Russo, 2004], ma anche all’interno del medesimo contesto sociale [cfr. Pizza, 2005] e richiamando ancora Durkheim, se la malattia ci costringe “soltanto” ad adattarci in modo diverso dalla maggior parte dei nostri simili, la salute è una condizione ideale identificata con una norma costruita dalla maggioranza sella “specie sociale” alla quale si appartiene [cfr. Durkheim, in Pizza, 2005]. Di conseguenza «lo stare in buona salute di un abitante di un pese in via di sviluppo sarà considerato al di sotto della soglia dell’accettabile da parte di un italiano o di un newyorkese, così come lo stare in salute di un ottuagenario non gli consentirà in nessun caso di condurre la stessa vita di un diciottenne» [Russo, 2004:181].
E se si arrivasse a radicalizzare la concezione di salute?
Si otterrebbe un duplice risultato: da un lato la “medicalizzazione3 dell’esistenza”, ossia un aumento del potere della medicina sull’uomo, paradigma all’interno del quale finirebbero per essere trattate/considerate come malattie anche situazioni di disagio fisiologico dell’esistenza (ad esempio la “tipica” malinconia adolescenziale); dall’altro un aumento del potere della malattia sull’uomo, paradigma che porterebbe il malato a considerare la malattia sempre meno “sua” e sempre più “dell’organismo4”, rendendo difficile quel processo di appropriazione della malattia indispensabile per accettarla e per reagire di fronte ad essa [cfr. Russo, 2004].
Una riflessione su tali argomenti alimenta sempre un dialogo controverso in cui si accavallano credenze, concezioni e interpretazioni che tuttavia si influenzano a vicenda. A causa dellasua duplice natura, sia individuale che sociale, i differenti modi di agire dell’uomo nei vari contesti che abita offrono un campo privilegiato per l’investigazione antropologica delle risposte culturalmente diversificate sul tema dell’esperienza umana [cfr. Nagy, 2015], occorre pertanto, per comprendere temi solo apparentemente banali, tentare di capire quanto le condizioni culturali determinino certi modi di vivere la salute, la malattia e la relativa cura [Kleinman, in Quaranta, 2006].
1 Si è scelto come riferimento l’edizione italiana del noto Churchill’s Medical Dictionary (ed. italiana: Menarini, 1994).
2 L’insieme di saperi e pratiche mediche che si avvale di approcci e metodologie scientifiche.
3 Medicalizzare significa, in breve, attribuire carattere medico, quindi far rientrare nella sfera della medicina, eventi ritenuti d’altra natura.
4 Risulta necessario tener presente come in Antropologia si sia da tempo superata la secolare separazione mente/corpo cartesiana che vedeva l’essere umano sganciato da qualsiasi ancoraggio corporeo, elaborando e preferendovi piuttosto modelli che ricomponessero tale frattura [cfr. Pizza, 2005].
Bibliografia
Dei, F., Antropologia Culturale, Il Mulino, 2012
Di Miscio, A. M., “Da Kleinman a Farmer: dall’esperienza soggettiva della malattia alla malattia come incorporazione della sofferenza sociale”, in Rivista di Scienze Sociali, n.0,2010
Gadamer, H. G., Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano, 1994
Nagy, E. “Il corpo in una prospettiva cross-culturale” inAntologia di Antropologia Medica, Healthy Diversity, 2015
Pizza, G., Antropologia Medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma, 2005
Quaranta, I., (a cura di), Antropologia Medica. I testi fondamentali, Cortina Editore, Milano, 2006
Russo, T., M., Corpo, salute, cura. Linee di Antropologia biomedica, Rubettino, Soveria Mannelli, 2004