«Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da sub alterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati» [Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI].
Come è risaputo, questo estratto di Alessandro Manzoni fu scritto nell’Ottocento e, sebbene sia tratto da un romanzo, si ispira a eventi realmente accaduti circa due secoli prima. Tuttavia, leggendo con attenzione e presa di coscienza è possibile riscontrare dei punti in comune con comportamenti manifestatisi su scala mondiale allo scoppio di due delle pandemie1 più “famose” degli ultimi quaranta anni: l’AIDS a partire dagli anni Ottanta e, più recentemente, i contagi da un nuovo Coronavirus2 .
In questo breve articolo si affronterà il tema del contagio nelle sue differenti sfaccettature e conseguenze: il suo essere culturalmente definito, la paura di essere infettati, la conseguente stigmatizzazione del contagiato e le restrizioni legate alla contaminazione, all’impurità e alla sporcizia. Partendo da quest’ultima affermazione, si può individuare come il contagio, odiernamente, sia diametralmente associato al concetto di contaminazione e, quindi, di sporco.
Perché una delle raccomandazioni dell’OMS per diminuire le possibilità di contagio da COVID-19 è lavarsi le mani con cura?
Perché, nel mondo occidentale, attraverso la teoria dei germi3 [cfr. Caprara, 1998], è stato provato che quel che noi consideriamo “sporco” è veicolo di batteri e virus che possono infettare un corpo e, in seguito, propagarsi ad altri organismi. In questo caso, la disinfezione è strettamente legata al concetto di pulizia.
Secondo Mary Douglas, nel suo studio riguardo al legame tra impurità e sacro, il concetto di sporcizia è determinato culturalmente:
è una diretta conseguenza dell’ordine che viene dato a una società; il disturbo che crea in alcune piuttosto che in altre viene interpretato come un disordine e, quindi, come qualcosa di negativo, una contaminazione. Di conseguenza, si potrebbe dire che anche il legame che l’impurità e la sporcizia hanno con la trasmissione4 di un’infezione è determinato culturalmente [cfr. Douglas, 2014].
Tra gli Alladian della Costa d’Avorio, per esempio, il contagio ha a che fare meno con una regola fissa e più con circostanze specifiche che portano alla trasmissione della malattia: «il contagio rappresenta quindi una categoria trasversale che, da un lato, collega la malattia all’organizzazione sociale della comunità e, dall’altro, ai suoi valori culturali. È un concetto multiforme, che permette a fattori individuali e circostanziali di modificare le regole della trasmissione5 » [Caprara, 1998: 997]. Tuttavia, l’insinuarsi della biomedicina all’interno di queste realtà fa scaturire delle situazioni conflittuali e delle incongruenze all’interno delle concezioni locali [cfr. Caprara, 1998].
Ciò che, però, spesso accomuna il concetto di contagio nelle varie popolazioni è lo stigma che perseguita chi contrae una determinata malattia:
«il rischio di contagio e i meccanismi attraverso i quali si effettua la trasmissione contribuiscono alla costruzione sociale della malattia e provocano, inevitabilmente, comportamenti che tendono a separare il malato dalla società attraverso il rifiuto o l’isolamento» [Caprara, 2012].
Una delle pandemie che tendono, tutt’oggi, a stigmatizzare profondamente il contagiato è certamente l’AIDS: nel 2002, sono stati stimati 42 milioni di contagi nel mondo, con 25 milioni di decessi (rallentati grazie all’introduzione di terapie anti-retrovirali negli anni Novanta, che non curano, ma aiutano a prevenire i decessi). La ragione del forte stigma correlato a questa particolare malattia è legata a due elementi principali: il metodo di trasmissione, soprattutto per via sessuale (in occidente, con incidenza maggiore nella comunità di uomini bianchi omossessuali), e a causa del fatto che ancora non esistono né una cura né un vaccino, il che rende la prevenzione a mezzo di contraccettivi a barriera l’unico modo per arginarla (strategia che, tuttavia, necessita di un investimento politico e d’informazione non indifferente) [cfr. Schoepf, 2004]. A causa di preconcetti di stampo culturale e religioso o, perfino, a causa di imposizioni da partner non interessati, l’utilizzo del preservativo, anche quando esiste il sospetto di un’infezione, non è sempre da dare per scontato. Ciò può essere messo in relazione alla teoria del self as a risk taker, secondo la quale, all’interno di una comunità dove si sta propagando un’infezione, è l’individuo solitario, il loner, a essere disposto a correre più rischi e a ignorare più facilmente le regole impartite per prevenire il contagio. [cfr. Douglas – Calvez, 1990].
Poiché l’immunità viene garantita per proteggere la comunità di cui si è parte, un individuo che non si sente parte della comunità o ne è escluso è più propenso a correre rischi quando si tratta di contagio: «rifiutarsi di seguire un buon consiglio sulle [pratiche igieniche] non deve essere attribuito a un problema di comprensione. È una preferenza» [Douglas – Calvez, 1990: 446].
È possibile però essere contagiati pur mantenendo la distanza e prendendo tutte le precauzioni del caso? Se sì, da cosa?
Girolamo Fracastoro, all’interno del saggio De contagionibus et contagionis morbis et eorum curationae (1546), riscontra tre forme diverse di contagio: «quella che agisce per semplice contatto, quella che opera per contatto indiretto attraverso sostanze infettive e quella che agisce per trasmissione a distanza» [Caprara, 2012:53]. Pertanto, può essere una forma di “trasmissione a distanza” quel che viene definito come “contagio emotivo”?
Il contagio emotivo è un fenomeno cognitivo, comportamentale, psico-fisiologico e sociale; è una risposta istintiva che permette all’individuo di leggere dei segnali sociali e di replicarli, spesso inconsciamente, trasportando il proprio stato emotivo sulla stessa lunghezza d’onda della persona che si ha di fronte. In alcuni casi, tuttavia, come nel caso della “rabbia”, si risponde istintivamente con un’emozione differente (ovvero, la paura): alcuni studiosi hanno però ipotizzato che in realtà la prima risposta, anche in questa situazione, sia di mimesi, ovvero l’individuo prova immediatamente una rabbia fugace che viene però sostituita da un sentimento che porta alla preservazione di sé [cfr. Hatfield et al., 2014]. Il contagio emotivo si sviluppa quindi su più livelli: «gli stimoli scatenanti nascono da un individuo, agiscono (cioè sono percepiti e interpretati da) uno e più individui e producono emozioni corrispondenti o corrispondenti/complementari in questi individui» [Hatfield et al., 2014:160].
In un clima di distanziamento sociale e di quarantena, è comunque possibile essere “contagiati” dalle emozioni altrui?
Si può “contrarre” qualcosa tramite, ad esempio, un social network? Nonostante non sia possibile stabilire se possa avvenire un vero e proprio contagio emotivo tramite social network, a causa dell’assenza dei segnali sociali (social cues) che sono ritenuti necessari affinché questo sia possibile, in uno studio del 2014, su un piccolo campione all’interno della News Feed di Facebook, è stato visto come i post dei propri amici e, soprattutto, i messaggi possono cambiare lo stato d’animo del lettore. Tuttavia, quel che accade nella “realtà” (ovvero essere trasportati dallo stato emotivo di un interlocutore e finire per provare le stesse emozioni), sui social network potrebbe in alcuni casi essere ribaltato: è stato osservato che, in determinate circostanze, la felicità altrui può condizionare uno stato depressivo nel lettore, a tal punto da percepirsi come socialmente isolato ed escluso – invece che trasportato – dalla sensazione positiva che colui che ha condiviso il contenuto sembra provare. Si produce un effetto comparativo in cui si è da soli insieme [cfr. Kramer et al., 2014].
Il contagio sembra quindi essere un fenomeno sociale complesso e dalle molte sfaccettature che, come la paura che ne deriva, soggiace anch’esso alle regole della società che lo producono, lo modificano e lo metabolizzano. Tuttavia, alla luce dei diversi modi in cui la società e l’individuo all’interno di essa interpretano e “trasmettono” il concetto di contagio, inteso nelle sue diverse forme che non prevedono necessariamente un contatto fisico o la presenza di un’infezione, è possibile pensare che la paura e l’isteria che ne scaturiscono siano anch’esse trasmissibili?
1 L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO – World Health Organization) ha dichiarato COVID-19 una pandemia. La differenza con l’epidemia, secondo l’Enciclopedia Treccani, sta nel fatto che la “pandemia” ha la potenzialità di diffondersi molto rapidamente in tutti i continenti.
2 Dal sito del Ministero della Salute: «I Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi […]. Sono stati identificati a metà degli anni ’60 e sono noti per infettare l’uomo ed alcuni animali (inclusi uccelli e mammiferi). […] Ad oggi, sette Coronavirus hanno dimostrato di essere in grado di infettare l’uomo».
3 Dimostrata da Louis Pasteur nel XIX secolo, cambiò completamente il modo di vedere le cause delle malattie.
4 In A. Caprara [1998], l’autore utilizza contagion e trasmissibility come sinonimi.
5 Le traduzioni sono dell’Autrice.
Bibliografia
Caprara, A., Cultural Interpretations of Contagion, Tropical Medicine and International Health, vol. 3, n. 12, 1998
Caprara, A., “Contagio”, in Cozzi, D. (a cura di), Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi Editore, Perugia, 2012
Douglas, M., Calvez, M., The Self as a Risk Taker: a Cultural Theory of Contagion in Relation to AIDS, The Sociological Review, vol. 38, n. 3, 1990
Douglas, M., Purezza e Pericolo, Il Mulino, Bologna, 2014 (ed. or. 1966)
Hatfield, E., Bensman, L., Thornton, P. D., Rapson, R. L., New Perspectives on Emotional Contagion: A Review of Classic and Recent Research on Facial Mimicry and Contagion, Interpersona, vol. 8, n. 2, 2014
Kramer, A. D. I., Guillory, J. E., Hancock, J. T., Experimental Evidence of Massive-Scale Emotional Contagion through Social Networks, PNAS, vol. 111, n. 24, 2014
Schoepf, B. G., AIDS, in Nugent, D., Vincent, J. (eds.), A Companion to the Anthropology of Politics, Blackwell Publishing, Hoboken (NJ), 2004