Francese o brasiliana, triangolare o rettangolare, completa o creativa, sono molteplici le tipologie di cerette inguinali tra le quali si può optare, ma la scelta è figlia del tempo e dello spazio in cui si generano. Così come la tonsura dei Missionari o dei popoli Thailandesi studiati da Tambiah [1985], la “manutenzione” inguinale è una pratica culturale e anche simbolica, portatrice di significati e rappresentazioni che influenzano e si lasciano condizionare da altre pratiche affini: una di queste è la pornografia [cfr. Paasonen, 2011]. Questi due regimi infatti sono intimamente connessi più di quanto si possa pensare in quanto la pornografia, definita come una pratica culturale, possiede la capacità di produrre condizionamenti sui comportamenti degli individui e sulla loro costruzione identitaria.
A partire dal XIX secolo iniziò la produzione di massa di materiali pornografici, tra i quali foto, film, libri, riviste e, al giorno d’oggi, prodotti digitali. In ognuno di questi convivono aspetti materiali e semiotici: «[il porno] implica intensità carnose, rappresentazioni convenzionali, tecnologie mediatiche e circuiti di denaro, lavoro e affetto» [ivi:2]. Attraverso un minuzioso realismo anatomico (visivo, testuale e audiovisivo) i corpi si muovono e, allo stesso tempo, muovono e influenzano i corpi di chi guarda [ibidem]. La pornografia così collega i corpi delle persone alle rappresentazioni, le quali compongono dei veri e propri archivi mentali caratterizzati da prototipi1 del desiderabile; ad esempio le dimensioni dei seni oppure il tipo di taglio pubico.
Le preferenze sessuali umane non sono quindi biologiche e universali, ma è quello che Sahlins chiama «codice culturale» a regolare i «valori d’uso» della pornografia in generale [cfr. Sahlins, 1976]. Così, la riproduzione di video per adulti non risponde solamente al soddisfacimento dei bisogni immediati, ma riguarda anche la diffusione culturale di tipologie di consumo dell’atto sessuale e dei corpi.
Una storia ecologica
Agli albori del porno degli anni Settanta le raffigurazioni proposte dei corpi femminili erano, rispetto a quelle odierne, “grezze” in quanto le donne, cavalcando il treno della liberazione sessuale e del femminismo, presentavano uno stile definibile come wild and free; al contempo, la controparte maschile sfogliava fugacemente le riviste di Playboy ereditate dai propri padri come riti di passaggio alla maturità.
In quegli anni il porno era un tabù declinato differentemente rispetto ad oggi: esso era soprattutto un atto politico. Infatti, tra gli anni Settanta e Ottanta erano in atto le lotte tra anti e pro pornografia, cosicché la proibizione morale e paternalistica della società comportava che i giovani non venissero bombardati costantemente dai prodotti pornografici, lasciando in parte le ragazze escluse dall’accesso a questo “frutto proibito” [cfr. Paasonen, 2011]. Le critiche antipornografiche in quel periodo sostenevano come gli uomini fossero vulnerabili alle influenze nefaste della sessualità, provocando «comportamenti caratterizzati da una sorta di libidinosa anarchia oppure far cadere i soggetti sotto l’influenza di donne dalla sessualità e dalla psiche anormali e, dunque, pericolose» [cfr. Menicocci, 2014:244]. Il senso di immoralità, accostato alla pornografia dai conservatori, si fondava sull’idea che l’eccessiva libertà sessuale fosse evidentemente un male. Così, in quest’epoca nella quale minigonne e seni nudi sulle spiagge definivano le donne come “sfacciate” [ibidem], il porno piuttosto che imporre mode le raffigurava.
A partire dagli anni Novanta la situazione cambiò.
Forse perché sfoltendo i genitali, gli scatti e le riprese divennero più nitide [cfr. Cokal, 2007], o forse perché i folti pubi ormai finirono per essere associati agli stagionati corpi delle Figlie dei fiori, piuttosto che alle contemporanee icone sexy [cfr. Ramsey, 2009]; non ci sono risposte assolute, ma ciò che è certo è stato il cambio di tendenza nella presenza di peli pubici. Infatti, secondo un sondaggio del 2017 riportato da Cosmopolitan, solo il 6% delle ragazze intervistate di età compresa tra i 18 e i 35 anni opta per una soluzione “al naturale”, con il 30% dei ragazzi che ammette come i peli pubici possono portare alla rottura di relazioni. Un altro studio pubblicato nel 2013 sul The Journal of Sexual Medicine mostra come 2.453 donne statunitensi di età compresa tra 18 e 68 anni ritengono che la rimozione dei peli pubici sia associata ad una più alta auto-considerazione e ad una maggior positività e dinamicità funzionale. Tuttavia, emerge come allo stesso tempo il 60% delle intervistate abbia avuto, almeno una volta, complicazioni come abrasioni o infezioni.
Una possibile interpretazione di questo cambio di tendenza può essere individuata nella capacità del porno di diffondere delle pratiche particolari portandole ad una condizione di normalità, come nel caso della depilazione. Infatti, la rimozione ampiamente diffusa dei peli pubici femminili presenta un collegamento con il senso di imbarazzo e vergogna descritto da Fahs [2014] come «genital panics».
La diffusione mediatica di corpi depilati ha promosso un’immagine femminile ideale nella quale non rientra il corpo lasciato allo stato “naturale” cosicché, essendo etichettato come inaccettabile, occorrono delle modifiche o trasformazioni che lo rendano attraente [cfr. Yang Li et Braun, 2013]. A questo si aggiungono le pressioni indotte dagli sguardi, anch’essi culturalmente condizionati, di amici, partner e famigliari.
Pelo o non pelo?
Oggi, molte donne dell’industria pornografica occidentale ritengono che le decisioni da parte delle compagnie di permettere il mantenimento dei peli pubici sia un segno di progresso, ma in realtà altro non è che una risposta alle domande di mercato [cfr. Dault, 2011].
Con i diversi tipi di pressioni che convergono sul web, le donne possono provare dissonanza cognitiva tra ciò che vogliono e ciò che pensano di dover desiderare. Così, dai corpi glabri delle modelle di Victoria Secret deriva la domanda: “pelo sì o non pelo no?”. Naturalmente non vi è una risposta giusta, ma bisogna comprendere come l’odierna depilazione sia dettata da norme sociali, dalla volontà di apparire sessualmente appetibili allo sguardo della propria controparte [cfr. Greth:2013], ma anche da logiche economiche più ampie. A questo va anche aggiunto come le produzioni e le diffusioni mediatiche (mediascape o mediorami)2 di informazioni «tendono ad essere rendiconti, incentrati sulle immagini e basati sulla narrazione, di porzioni di realtà e quel che offrono a coloro che li utilizzano e modificano è una serie di elementi (come personaggi, trame e forme testuali) con i quali è possibile dar forma a sceneggiature di vite immaginate, vite degli spettatori stessi ma anche di altri che vivono altrove» [cfr. Appadurai, 2001:90].
In molti casi le giovani donne d’oggi possono avere solamente i mediorami come punto di riferimento su come definire le proprie pratiche di cura del corpo e della vita sessuale [cfr. Dault:2011]. Tenendo presente la lezione di Mauss [1923], perché non provare allora a pensare alla depilazione come un «fatto sociale totale»?.
1 Durante gli anni Settanta Eleanor Rosch ha formulato la celebre “teoria dei prototipi” secondo la quale gli individui categorizzano cognitivamente il proprio mondo a partire proprio da rappresentazioni prototipiche; tali prototipi sono oggetti esemplari scelti per rappresentare una categoria, in quanto presentano il maggior numero di attributi condivisi con gli altri oggetti inclusi nella medesima cate goria [cfr. D’Andrade, 1995].
2 Appadurai analizza la globalizzazione del mondo contemporaneo come un insieme intrecciato di flussi su più livelli: capitali, tecnologie, merci, persone, informazioni, valori e simboli. Questi flussi che non conoscono barriere nazionali vanno a comporre almeno cinque scenari entro i quali si muovono: gli etnorami (flussi di persone), mediorami (flussi di simboli), tecnorami (flussi di tecnologie), finanziorami (flussi di denaro) e ideorami (flussi di idee).
Bibliografia
Appadurai, A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001
Cokal, S., “Clear Porn: The Visual Aesthetics of Hygiene, Hot Sex, and Hair Removal”, in A.C. Hall e M.C. Bishop (eds.), Pop-Porn, Prager Publishers, Londra, 2007.
D’Andrade, R., The Development of Cognitive Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge, 1995
Dault, M.S., The Last Triangle: Sex, Money and the Politics of Pubic Hair, Queen’s University Kingston, Ontario, 2011
Fahs, B., “Genital panics: Constructing the vagina in women’s qualitative narratives about pubic hair, menstrual sex, and vaginal self-image”, in Body Image, vol. 11, n.3, pp. 210-218, 2014
Greth, T., “To let hair be, or to not let hair be? Gender and body hair removal practices in Aotearoa/New Zeland”, in Body Image, vol. 10, n.4
Mauss, M., Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaiques, L’Année sociologique, Parigi, 1923
Menicocci, M., Pornografia di massa. Dalla rivoluzione sessuale alla Porn Culture, Edizioni Altravista, Lungavilla, 2014
Paasonen, S., Carnal Resonance. Affect and Online Pornography, The MIT Press, Massachussetts, 2011
Ramsey, S., “Pubic Hair and Sexuality: A Review”, in Journal of Sexual Medicine, vol. 6, n.1, 2009
Sahlins, M., Culture and Pratical Reason, University of Chicago Press, Chicago, 1976
Tambiah, S.J., Rituali e cultura, Mulino, Bologna, 1985
Yang Li, A., Braun, V., “Pubic hair and its removal: A practice beyond the personal”, in Feminism & Psichology, 2016
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