Macisti e periferie. Una riflessione sulla morte di Willy Monteiro Duarte

Colleferro, provincia di Roma, notte tra il 5 e il 6 settembre 2020; un ragazzo ventunenne muore a causa di un violento pestaggio subito. Si tratta di Willy, nato in Italia da genitori capoverdiani e apprendista cuoco presso un Hotel. Il suo sogno? Indossare la maglia della A. S. Roma. I colpevoli? La legge italiana ci insegna che «un imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» [Cost. art. 27, co. 2], tuttavia le prime ricostruzioni e molti presunti testimoni hanno sin da subito fatto riferimento a un gruppo di ragazzi già noti nella zona a causa della discutibile fama che li accompagnava.

Di questi personaggi due sono state le caratteristiche che immediatamente sono venute alla luce: la loro cura per il corpo (si tratta di ragazzi definiti come “piazzati”, “palestrati”, “fisicati”) e la loro familiarità con le arti marziali (erano praticanti di MMA[1]), peculiarità che hanno innescato un coro quasi unanime che invocava alla chiusura delle palestre, considerate il vero motivo del blackout morale verificatosi, al quale si è accompagnato un controcanto che affermava quanto le arti marziali siano violente per natura, pericolose, pertanto, da tenere sotto controllo.

Ma realmente ha senso incolpare arti marziali e bilancieri?

Come sempre bisogna inquadrare i fatti sotto un profilo culturale ed educativo, perché «ogni cultura forgia i propri membri e tale impegno costruttore è vario tanto quanto diversificate sono le condizioni sociali» [Cappadonia, 2013:174]. Ciò che le scienze sociali ci insegnano è quanto anche la società abbia un ruolo determinante nelle dinamiche violente, essendo essa la principale promotrice di modelli culturali, nonché comportamentali, che influenzano il nostro agire quotidiano, il nostro, modo di “stare al mondo” (parafrasando De Martino [1948]); limitarsi a considerare la violenza come innata, naturale, nonostante la letteratura scientifica fornisca numerosi spunti, rischia di essere, se decontestualizzato, un atteggiamento semplicistico, poiché non vengono contemplate le disuguaglianze all’interno delle quali essa (la violenza) si costituisce e si riproduce.

L’episodio di Colleferro potrebbe considerarsi un crocevia tra il concetto di mascolinità egemonica e varie espressioni e modelli di violenza; un’area dove questi elementi si alternano in modo caotico, impedendo una visione immediatamente oggettiva della realtà, un’area sfumata dove le istituzioni latitano e non riescono evidentemente a fornire strumenti educativi o imporre linee di condotta.

Il paradosso di Maciste

Maciste è un personaggio inventato da Gabriele D’Annunzio (ma entrato nel mainstream soprattutto grazie al film del 1914 Cabiria), paragonabile a Sansone o Ercole, quindi dotato di una forza sovraumana (e di conseguenza di un fisico scolpito, perfetto) ma dall’animo gentile. È proprio in quel “gentile” che si cela la paradossale inversione simbolica della figura di tale personaggio. Oggi, da un punto di vista ideologico, “maciste” si fonde con “macho[2]” e il “vero uomo” deve uniformarsi a tutta una serie di codici culturali per essere riconosciuto come tale tra i suoi pari, perpetrando molto spesso atteggiamenti molto lontani dalla gentilezza d’animo di quel Maciste originario e che si polarizzano verso quella che Connell definisce come «mascolinità egemonica», ossia una serie di condotte e pratiche sociali che definendo la comunità maschile contribuiscono alla disuguaglianza di genere sia nei confronti delle donne, che nei confronti di eventuali gruppi maschili minoritari, come ad esempio uomini appartenenti alla comunità omosessuale, le cui maschilità diventano “subordinate” [cfr. Connell, 2005].

Il modello proposto dalla mascolinità egemonica, soprattutto nella cultura occidentale, può comprendere l’essere competitivi, la ricerca del successo, l’ambizione, l’indipendenza e la capacità di rischiare [cfr. Mankowski, Maton, 2010], tutte “qualità” socialmente, ma anche storicamente, attribuite alla figura maschile. Alla lista si possono aggiungere poi tutti gli atteggiamenti connessi al corpo, alla sua “antropopoiesi[3]” e al suo utilizzo nell’auto-rappresentazione e nella definizione identitaria. I presunti aggressori avevano corpi scolpiti e tatuati, corpi fatti per piacere ma forse soprattutto per intimorire. Anche questo rientra nel “canone” della mascolinità egemonica, infatti tale modello prevede l’aggressività e la soppressione di quelle emozioni che potremmo definire “femminili” (ibidem) quali l’empatia e la dolcezza. Un corpo preparato ad opera d’arte, in certi ambienti, può fungere quasi da curriculum incarnato, un modo efficace per trasmettere al primo sguardo un certo tipo di messaggio e di informazioni sottointese, tra le quali il potenziale offensivo e la tendenza bellicosa del soggetto.

Osservando in prima persona è possibile capire come tale modello comportamentale preveda tutta una serie di pratiche difensive e autoiproduttive: di fronte ad una crisi i riferimenti culturali messi a disposizione insegnano (soprattutto ai più giovani, in quanto terreno fertile da coltivare) a reagire in modo violento e aggressivo, bypassando una possibile elaborazione emotiva delle proprie emozioni e la relativa comunicazione [cfr. Makowski e Maton, 2010]. Un “maschio egemone” acquisisce e mantiene, all’interno del proprio gruppo di riferimento, uno status attraverso certi comportamenti manifesti e, potremmo dunque affermare, anche attraverso certe pratiche corporali. Come mantiene tale status? Confermando e perpetrando il modello nel tempo, pena l’emarginazione, la stigmatizzazione, la derisione o persino l’esclusione da parte del gruppo sociale. Proprio Judith Butler, riprendendo gli studi di Victor Turner sul “dramma sociale rituale”, evidenzia come l’agire sociale richieda una performance ripetuta nel tempo e che ovviamente faccia eco a dei significati già stabiliti socialmente [cfr. Butler, 2012].

Le periferie, terre di nessuno?

Le periferie, per molti versi, sono oggi dei «luoghi maledetti e marginali» [Fava, 2008:31], dove regnano il vuoto sociale e l’insoddisfazione. «È in questi distretti ammantati da un’aura sulfurea in cui i problemi sociali si concentrano e si aggravano, che risiedono i paria urbani di fine secolo» [Wacquant, 2016:29] ed è all’interno di tali realtà che riesce ad attecchire una cultura dell’odio che organizzandosi si sostituisce alle istituzioni secolari riuscendo ad attuare tutta una serie di pratiche e retoriche in grado di a) tramutare quella che è una delle essenze delle arti marziali, ossia la difesa, in attacco. Cosa ottiene in cambio chi abbraccia tali comportamenti? Rispetto, fama, una certa attrattività e in alcuni casi un benessere economico altrimenti irraggiungibile. In pratica «la crisi delle istanze politiche territoriali finisce per riverberarsi sui processi di organizzazione del territorio stesso» [Maggioli, 2009:62]. Questo disagio non nasce ovviamente dal nulla, ma si consolida all’interno di contraddizioni che riguardano la struttura del mondo del lavoro, delle abitazioni, delle relazioni interpersonali e dell’economia [cfr. Scandurra, 2018].

Durante il convegno internazionale “La nuova cultura delle città”, svoltosi a Roma nel 2002, i contributi di Giuseppe Dematteis e Francesca Governa hanno chiaramente illustrato come il concetto di identità territoriale altro non sia che il risultato dell’incontro di tre diversi “assi” di analisi: a) quello della coerenza interna, che rinvia alla differenza e al confine con “l’altro”, b) quello della continuità nel tempo che chiama in causa memoria, tradizioni e abitudini e c) quello della tensione teleologica, che si collega all’azione proiettata nel futuro [cfr. Dematteis-Governa, in Maggioli, Morri, 2009].

Nelle periferie tale tripartizione è estremamente evidente:

  1. varcando la “soglia” di uno di questi quartieri è possibile rendersi immediatamente conto dello stacco, anche soltanto visivo, rispetto al centro, una separazione, anzi, una differenziazione già visuale, per non dire architettonica, che si affianca ad una possibile reticenza di coloro che li abitano, i quali non faranno altro che alimentare la distanza socio relazionale con l’altro visto come possibile intruso;
  2. in periferia, o meglio in borgata, si vive in un certo modo, seguendo una certa consuetudine fatta soprattutto di codici morali, di sottintesi e di non detti costruiti nel tempo attraverso pratiche e retoriche che sono divenute condivise dalla comunità;
  3. la periferia è comunemente riconosciuta il luogo della città dove la speranza nei confronti di un futuro migliore si assottiglia e dove le differenze sociali si fanno più marcate perché raggiunte a malapena o spesso completamente ignorate dal welfare state.

In conclusione

Come suggerisce Wacquant, [2016], i meccanismi che producono e riproducono la marginalità urbana, così come le forme che assume, diventano comprensibili qualora si abbia la prudenza di incorporarli nella matrice storica della classe, dello stato e dello spazio caratteristici di ogni società in una determinata epoca. Non è sufficiente pertanto, ma soprattutto non è consigliabile, rifarsi al riduzionismo della cronaca per assegnare giudizi di valore a un fatto come quello che ha colpito la comunità di Colleferro, proprio perché dietro a un evento classificabile “semplicisticamente” come violento si cela un universo di possibili pratiche, retoriche e significati che, intrecciandosi con un tessuto sociale già caotico di suo, lo rendono molto più complesso di ciò che sembra se ci si aggrappa ad una frettolosa analisi e ricostruzione che spesso i media tendono a restituire. Ne consegue, sempre su suggerimento di Wacquant, quanto sia necessario lavorare nel profondo qualora si voglia ricostruire correttamente l’immagine di certi attori sociali, anche quando essi vengono considerati “semplicemente” dei reietti.

Dario Bettati

Info

 

 

 

[1] Acronimo di Mixed Martial Arts (Arti Marziali Miste, trad. dell’autore). Con tale terminologia si individua uno sport da combattimento che consente l’utilizzo di tecniche provenienti da un nutrito gruppo di arti marziali. Potremmo definirlo come un mosaico di stili di combattimento diversi.

[2] Dal latino Mascùlus. Appellativo, diffuso con l’accezione messicana, con cui si indica un uomo che tende ad esibire virilità assumendo comportamenti riconducibili a modelli ritenuti dotati di indubbie caratteristiche maschili (cfr. Treccani.it)

[3] Processo di costruzione e definizione dell’identità umana [cfr. Remotti, in Allovio-Favole, 1996]

 

Bibliografia

Allovio, S., Favole, A., (1996), Le fucine rituali: temi di antropoiesi, Il Segnalibro, Torino.

Bellassi, S., (2011), L’ invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma.

Burgois, P., (2003), Cercando rispetto. Drug economy e cultura di strada, Derive Approdi, Roma.

Butler, J., (2012), “Atti performativi e costituzione del genere”, in Arfini, E., Lo Iacono, C., (a cura di), Canone inverso, ETS, Pisa.

Cappadonia, D., (2013), “Chirurgia estetica e “bello sociale” contemporaneo Come la società contemporanea plasma sé stessa”, in Antrocom – Online Journal of Anthropology, vol. 9. n. 1.

Ciccone, S., (2019), Maschi in crisi?, Rosemberg & Sellier, Torino.

Clerici, F., Gabrielli, F., Vanotti, A., (2010), Il corpo in vetrina, Springer-Verlag, Milano.

De Martino, E., (1948), Il mondo magico. Prolegomeni per una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino.

Fava, F., (2008), “Tra iperghetti e banlieues, la nuova marginalità urbana”, in Vita e Pensiero, n.2.

Lastrico, V., (2016), “Palestra e identità: fra body building, body social building e body building society”, inDada – Rivista di Antropologia post-globale, n. 1.

Connell, R., W., Messerschmidt, J., W., (2005), “Hegemonic Masculinity: Rethinking the Concept”, in Gender & Society”, Vol. 19.

Maggioli, M., Morri, R., (2009), “Periferie urbane: tra costruzione dell’identità e memoria”, in Geotema, n.37.

Mankowski, E. S., Maton, K. I., (2010). “A community psychology of men and masculinity: Historical and conceptual review”, in American journal of community psychology, 45.

Scandurra, G., (2018), “Cosa sarà delle nostre periferie? Conflitti urbani e aree marginali”, in Theomai, n. 37.

Sobrero, A., (1992), Antropologia della città, Nuova Italia Scientifica, Roma.

Wacquant, L., (2016), I reietti della città. Ghetto, periferia, stato, Edizioni ETS, Pisa

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