Che lavoro del cavolo! Un’antropologia dei Bullshit Jobs

“Che lavoro fai?” è una delle domande più frequenti che spesso riceviamo o facciamo ad una persona appena conosciuta. Questa domanda non solo ha la capacità di “rompere il ghiaccio”, ma anche quella di aprire un metaforico vaso di Pandora dal quale fuoriescono i “mali” del lavoro. Infatti, se per molti le lamentele sono dovute non tanto al lavoro in sé, ma a quei fattori come il rapporto con colleghi, capi o clienti, per altri la lamentela riguarda il come le giornate lavorative, ad esempio, da receptionist vengano passate a rifornire la ciotola di caramelle, guardare e condividere meme sui social o dedicarsi alle letture personali.

David Graeber [2018] ha dedicato una ricerca proprio su come alcune persone si sentano soffocate da un lavoro del “cavolo”. Infatti, l’antropologo statunitense, dopo aver raccolto circa 250 testimonianze di persone che ritengono di svolgere un lavoro inutile e senza una valida motivazione per la sua esecuzione, è giunto alla definizione di ciò che è possibile chiamare un Bullshit Job: «per lavoro senza senso si intende un’occupazione retribuita che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così» [ivi: 31].

Tu che lavoratore del cavolo sei?

 Lungi dal presentarsi come oggettiva, questa definizione pone la centralità sulla soggettività dell’individuo, ovvero la percezione che il singolo ha del proprio lavoro. Infatti, per alcuni, lavorare come addetto all’ascensore e premere un pulsante al posto del cliente può risultare un lavoro soddisfacente. Tuttavia, il numero di coloro che si sentono privati della possibilità di fare qualcosa di concretamente utile è in costante aumento. All’interno di questa infelice massa, lo stesso David Graeber ha individuato cinque tipologie di lavoratori del “cavolo” [2018]:

  1. I tirapiedi: si tratta di tutte quelle forme di lavoro “servile”, la cui utilità è solamente quella di dare importanza a qualcuno, come nel caso degli assistenti amministrativi e di alcuni lavori di portineria.
  2. Gli sgherri: in epoca antica erano delle guardie armate senza scrupoli al servizio di un privato, mentre oggi, anche se la situazione è nettamente differente, molti lavoratori ritengono di svolgere, proprio come gli sgherri delle origini, dei lavori privi di un valore positivo, dai tratti manipolatori e aggressivi. Non è di certo un caso se molti addetti al telemarketing denunciano proprio questa triste condizione.
  3. I ricucitori: possiamo vedere in che cosa consiste un lavoro da ricucitore pensando, ad esempio, al personale del banco delle compagnie aeree. Ogni giorno questi lavoratori si trovano sommersi dalle lamentele dei passeggeri per il mancato arrivo dei propri bagagli, diventando il capro espiatorio della compagnia anche se la colpa difficilmente sia la loro. In sostanza, questo lavoro esiste per il semplice fatto che è presente un difetto o una mancanza nell’organizzazione.
  4. I barracaselle: tra queste file di dipendenti possiamo trovare tutti coloro che si trovano in una condizione lavorativa il cui scopo è solo quello di dare l’impressione che l’organizzazione per la quale sono stati assunti stia facendo qualcosa di utile, quando non lo sta facendo. Ad esempio, nel caso di uno scandalo dovuto alla corruzione di un ufficiale di polizia o di un manager dell’alta finanza vengono formate le commissioni d’inchiesta che, fingendo di non sapere ciò che stava succedendo, fingono di fare qualcosa al riguardo.
  5. I supervisori: coloro che assegnano o dei lavori propriamente del “cavolo”, o dei lavori che verrebbero svolti lo stesso senza il loro intervento; ad esempio, i professionisti della leadership e i quadri intermedi.

Una triste storia: dal feudalesimo manageriale ai Bullshit Jobs

Una possibile “traccia” storica della nascita dei Bullshit Jobs può essere individuata nella celebre analisi sulla nascente classe degli impiegati berlinesi durante gli anni Trenta di Sigfried Kracauer [2020]. Infatti, il numero di impiegati in Germania durante questi anni toccava i 3.300.000 di lavoratori, con un impiegato ogni cinque operai. Proprio come accade nel fenomeno contemporaneo studiato da David Graeber, la condizione lavorativa descritta da Sigfried Kracauer ha messo in luce come già un secolo fa «la felicità della persona a volte non ha molta importanza» [ivi: 26].

Ciò che poteva osservare Kracauer negli anni Trenta era la nascita di un fenomeno incontrollabile descritto da David Graeber come feudalesimo manageriale [cfr. Graeber, 2018]. Infatti, nel corso del Novecento le relazioni interne tra i diversi settori aziendali si sono rese sempre più astratte e gerarchizzate. Analogamente ad un sistema feudale, molte grandi aziende hanno cercato sempre più di creare delle strutture gerarchiche interne, sino ad arrivare ad inventare dei Bullshit Jobs e riproducendo «senza fine i gradi e i livelli dei manager» [ivi: 219]. Se il pretesto di introdurre nuove figure dirigenziali è stato – ed è tutt’oggi – quello di migliorare l’efficienza, la realtà dei fatti suggerisce l’opposto, sfociando nella frustrazione generale dei lavoratori.

Ovviamente questo discorso non è generalizzabile ad ogni contesto lavorativo, infatti, molti datori di lavoro sono disposti a scendere a compromessi contro il loro interesse, cercando di fornire delle valvole di sicurezza attraverso cui l’insoddisfazione può trovare una via d’uscita [cfr. Kracauer, 2020]. Tuttavia, oggigiorno circa il 37-40% dei lavoratori nei paesi ricchi ritiene di avere dei lavori privi di scopo [cfr. Graeber, 2018]. Metà dell’economia sembrerebbe essere fatta di occupazioni senza senso. Diventa quindi legittimo chiedersi: «Se lasciassimo a tutti la facoltà di decidere come possono meglio giovare all’umanità, senza alcuna restrizione, come potrebbero mai arrivare a una distribuzione del lavoro più inefficiente di quella che già abbiamo?» [ivi: 350]. Non vi sono risposte certe ma, come direbbe Sigfried Kracauer, «ciò che importa non è che le istituzioni siano cambiate, [ma ciò che importa veramente] è che gli uomini cambino le istituzioni» [2020: 130].

Riccardo Montanari

Info

 

 

 

Bibliografia

Graeber, D., Burocrazia. Perché le regole ci perseguitano e perché ci rendono felici, Il Saggiatore, Milano, 2016.

Graeber, D., Bullshit Jobs, Garzanti, Milano, 2018.

Kracauer, S., Gli Impiegati, Meltemi, Milano, 2020.

One Reply to “Che lavoro del cavolo! Un’antropologia dei Bullshit Jobs”

  1. Tutto assolutamente e drammaticamente vero. Lavorare nella consapevolezza dell’ inutilità del proprio lavoro, nella frustrazione di non poter esprimere le proprie potenzialità rende infelice il lavoratore e improduttiva l’azienda.
    Alla base del problema ” il potere” che troppo spesso non è uno strumento di lavoro ma al contrario il lavoro diventa uno strumento per esercitare potere.

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