Ci sono due cose su cui ci sarebbe da scommettere, quasi ad occhi chiusi:
- Finora non hai mai sentito parlare di omofobia e pedagogia interculturale nello stesso articolo (oggi è la volta buona, se continui a leggere).
- Non conosci nessuno che, trovandosi a contatto con una persona omosessuale, venga assalito da una terribile ansia, così come non hai mai visto una persona “transfobica” scappare via urlando in preda al panico per aver riconosciuto una persona transgender (e probabilmente non lo vedrai né oggi né mai).
Come mai?
Il motivo è semplice: le persone che solitamente definiamo omo-lesbo-bi-transfobiche non hanno realmente una fobia, bensì sono “semplicemente” colme di odio e rabbia nei confronti delle persone omosessuali/lesbiche/bisessuali e/o transgender.
Per intenderci: una persona claustrofobica sarebbe felicissima di riuscire un giorno a prendere l’ascensore tranquillamente come tutti gli altri; una persona omofoba, invece, non sogna affatto di riuscire un giorno a partecipare a un Pride per sostenere i diritti civili. Vale a dire che, mentre un individuo fobico è solito vivere quella paura come irrazionale, chi è omofobo/a piuttosto crede che la propria ostilità nei confronti di una certa categoria di persone sia giustificata, ragionevole e persino condivisibile (Schuster e D’Ippoliti, 2011).
Si può dunque dedurre che gli “omofobi” non vivano la questione come un problema da curare o risolvere, al contrario, sembrano addirittura impegnarsi per trovare tesi a sostegno del loro pensiero, cercando intenzionalmente di convincere anche altri (Schuster e D’Ippoliti, 2011) e rivendicando il diritto di esprimere opinioni omofobiche, ovvero violente, offensive, inferiorizzanti, ridicolizzanti, ecc.
Partiamo allora dall’assunto che non si tratta di avere una fobia, ma di essere portatori e portatrici di una determinata cultura. Fatta questa premessa, sembrerebbe opportuno adottare una terminologia diversa. Perché? Quale?
Cosa c’è che non va nel termine “fobia”?
Il termine “fobia” può essere considerato fuorviante, per una semplice ragione: esso tende a condurre il pensiero all’ambito clinico, quasi come se vi fosse qualcosa di individuale da diagnosticare. Così facendo il rischio è quello di ignorare la vera origine del problema, ovvero l’origine socio-culturale, densa di implicazioni pedagogiche.
Quella che chiamiamo “omofobia”, infatti, in fondo nasconde dei bisogni formativi e affonda le proprie radici nella matrice culturale del fenomeno. Nulla vieta dunque di optare per l’utilizzo di altre espressioni alternative, ancora poco conosciute ma forse più appropriate, come negli esempi che seguono:
- “Omonegatività”/”omonegativismo”: questi termini consentono di far riferimento all’insieme di credenze e concezioni negative dell’omosessualità, che comprendono atteggiamenti di disgusto, ostilità o condanna (tutto tranne che paura, appunto).
- “Etero-sessismo” e “etero-normatività”: questi altri termini (Hudson e Ricketts, 1980) si possono usare per indicare «atteggiamenti ideologici che rifiutano, escludono e stigmatizzano ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di tipo non eterosessuale, sulla base dell’idea che l’eterosessualità sia l’unico modo legittimo e socialmente accettato di espressione dell’orientamento sessuale» (Schuster, 2011:25). Il termine “etero-normatività” sta a significare anche «propensione a immaginare come eterosessuale l’orientamento sessuale delle persone che ci circondano e a concepirlo come preferibile e migliore rispetto agli altri orientamenti sessuali» (Baiocco e Terriaca, 2019:22).
Se possiamo parlare di eterosessualità “obbligatoria” o “normativa” è perché esistono diversi tipi di norme, non soltanto quelle giuridiche.
Non per niente, il filosofo politico John Stuart Mill (2008) sostenne la necessità di proteggere gli individui non solo dai poteri dei governanti, ma anche «dalla tirannia dell’opinione del sentimento prevalente, dalla tendenza della società ad imporre, senza bisogno di leggi per farlo, le proprie opinioni e pratiche come regole di condotta obbligatoria per tutti, anche per chi vi dissente» (Gray, 2008: 8-9).
Dal problema clinico alla sfida interculturale
L’eterosessismo ha ricadute concrete e quotidiane sulla qualità della vita delle persone LGBTQ+, le quali rientrano tra le persone più vulnerabili della nostra società, nonostante i progressi (parziali) ottenuti nei tribunali. Ma cosa manca per cambiare lo stato delle cose? Secondo Konnoth (2020) a mancare è soprattutto il progresso nei cuori e nelle menti delle singole persone. Per questo progresso potrebbe essere importante non solo l’educazione affettiva e sessuale, ma anche la pedagogia interculturale, finora troppo poco considerata in relazione a questo problema.
Per il momento infatti possiamo notare che «l’intercultura si è concentrata quasi esclusivamente sulle differenze etniche e religiose, mentre la società presenta molteplici differenze (…) che si intrecciano e si contaminano» (Burgio, 2012:110). Un discorso interculturale attorno al tema della minoranza sessuale è più che possibile (e auspicabile); tra queste molteplici differenze che la società presenta, infatti, vi sono anche quelle che riguardano l’identità di genere e/o l’orientamento sessuale delle persone, per cui urge un lavoro di tipo pedagogico volto a garantire un’integrazione non subalterna delle persone omosessuali nella scuola e nella società (Burgio, 2012).
Ma la società “eterosessista”, è disposta a “tollerare” le coppie e gli individui LGBTQ+, sempre più visibili e stufi di vivere in clandestinità? Forse sì, ma pare che lo sia soltanto a condizione che questi “imitino” i modelli eterosessuali, spingendoli di fatto ad assimilarsi alla maggioranza e a perdere la propria specificità, identità e cultura, che invece avrebbe bisogno non tanto di essere tollerata, ma compresa e rispettata. L’omosessualità presenta infatti dinamiche, tappe evolutive, problemi e risorse specifiche; come afferma Castañeda (2006:16), essa «non è una copia mancata di una copia originale che sarebbe l’eterosessualità» e pertanto ha la possibilità di «inventare nuovi modi di vivere, pensare e amare» (Castañeda, 2006:76).
In altre parole, anche la comunità LGBTQ+, come tutte le minoranze oppresse, deve godere degli stessi diritti della maggioranza, senza rinunciare ad un’identità culturale propria. Questa può essere una sfida pedagogica per la piena realizzazione di società realmente democratiche, all’interno delle quali nessuno debba vivere nella paura.
Qualcuno che ha veramente (e legittimamente) paura infatti c’è… Gli omofobi? Certamente no.Si tratta purtroppo delle persone LGBTQ+, le quali rischiano di essere aggredite e/o discriminate in qualsiasi momento.
Cinzia Perrotta
Bibliografia
BAIOCCO R., TERRIACA C., (2019), Quanta bellezza. Mamme e papà di figlie lesbiche e di figli gay si raccontano, Milano, McGraw-Hill Education.
BURGIO G., (2012), Adolescenza e violenza: il bullismo omofobico come formazione alla maschilità, Milano, Mimesis Edizioni.
CASTAÑEDA M., (2006), Comprendere l’omosessualità, Roma, Armando.
DEMETRIO D., FAVARO G., (2002), Didattica interculturale, nuovi sguardi, competenze, percorsi, Franco Angeli.
GRAY J (2008), John Stuart Mill. On liberty and other Esseys, Oxford University Press, New York.
HUDSON W., RICKETTS W., (1980), A Strategy for the Measurement of Homophobia. Journal of Homosexuality, 5.
KONNOTH C., (2020), The Protection of LGBT Youth, University of Pittsburgh Law Review.
SCHUSTER A., D’IPPOLITI C., (a cura di), Italia: UNAR. (2011), DisOrientamenti Discriminazione Ed Esclusione Sociale Delle Persone LGBT in Italia. Roma, Armando.