Madame, ossia “mia signora”. Così vengono chiamate le donne che in Nigeria reclutano giovani ragazze al fine di inserirle e controllarle nel business illegale della prostituzione, promettendo loro un lavoro ben retribuito in Europa per poi costringerle, invece, ad aspettare clienti in strada [cfr. Kienast, Lakner, Neulet, 2014].
L’Agenzia Nigeriana per la Proibizione del Traffico di Persone (NAPTIP) ha stimato, nel 2012, che tra i trafficanti in Nigeria ci fossero addirittura più donne che uomini. Eppure, le madame sono ex prostitute che, emancipatesi dalla posizione di vittime, diventano a loro volta carnefici a servizio della tratta. Nonostante abbiano vissuto sulla propria pelle la brutalità dello sfruttamento sessuale, che cosa spinge queste donne a restare intrappolate nel circolo vizioso della violenza? Per conoscere questo complesso scenario è utile fare un passo indietro e capire, prima, come si diventa vittime di sfruttamento sessuale in Nigeria.
Human Trafficking in Nigeria
La tratta è un problema di dimensioni abnormi. Nel 2017 l’ONU riportava che la schiavitù contemporanea nel mondo coinvolgesse più di 40 milioni di persone e il 71% di queste erano donne. Nel panorama africano, la Nigeria risulta profondamente implicata nella tratta: come evidenzia il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (2004), pur essendo un Paese molto potente a livello economico – dagli anni Settanta, infatti, è un colosso nell’esportazione petrolifera – la Nigeria si porta addosso lo stigma della corruzione e delle profonde differenze socio-economiche che affliggono la popolazione.
In questo contesto proliferano pratiche di human trafficking e attività criminali più generiche (commercio di sostanze stupefacenti e crimini finanziari), inquadrate in un più ampio scenario di organizzazioni mafiose ben funzionanti: singolari sono i cults, gruppi malavitosi caratterizzati da valori quali rispetto, violenza e coercizione; non sono direttamente interessati alla tratta, ma i cultisti – così si chiamano i membri dei cults – sono spesso coinvolti negli affari dei trafficanti [cfr. Akinpelu, 2015].
Il reclutamento delle ragazze avviene attraverso l’inganno.
Alle giovani viene descritto un El Dorado europeo, dove potranno facilmente trovare il lavoro dei loro sogni. Più raramente le donne scelgono liberamente di seguire i trafficanti, pur sapendo che dovranno prostituirsi, ma questo avviene nel caso in cui esse non abbiano altra scelta pur di non restare in Nigeria [cfr. Kienast, Lakner, Neulet, 2014]. In questo senso, la logica del debito è centrale: al momento del reclutamento viene detto alle ragazze che non dovranno preoccuparsi del costo del viaggio (che si aggira attorno ai 30.000 – 50.000 €), perché avranno la possibilità di ripagarlo non appena inizieranno a guadagnare in Europa. Quello che non sanno, però, è che in Europa non si arricchiranno, anzi, le possibilità di permanenza saranno nulle o clandestine [cfr. Prina, 2003].
Un elemento importante in questo scenario è anche il juju (dal francese, “bambolina”), un sistema di credenze incentrato su stregoneria, obbedienza e ricompense. I trafficanti si avvalgono del juju per vincolare le vittime: quando si stipula il contratto per la partenza, esse vengono spesso costrette a partecipare a giuramenti che sanciscono l’obbligo di adempiere alle clausole dell’accordo; nel caso in cui le vittime volessero troncare il rapporto con i trafficanti, le conseguenze juju potrebbero essere la morte, la pazzia, l’infertilità o sciagure per la famiglia [cfr. Ikeora, 2017].
Chi sono le madame?
Sono prostitute che “ce l’hanno fatta”, che hanno estinto il debito nei confronti dei propri trafficanti e che si emancipano dalla posizione di vittime per ricoprire quella di aguzzine. Il processo avviene per libera scelta, sono le donne stesse che decidono di intraprendere questa carriera, ma in alcuni casi è l’unica via che hanno per arricchirsi, per non deludere i propri sfruttatori o per non tornare alla vita da cui si sono spontaneamente allontanate [cfr. Kienast, Lakner, Neulet, 2014]. Su questo ultimo punto è bene aprire una parentesi: se è vero che le ragazze vengono ingannate e costrette a prostituirsi, non è altrettanto corretto definirle automaticamente come “schiave”.
I cultural studies[1] si sono a lungo interrogati su questo termine e notano che, laddove vi sia una iniziale volontà nel sottoscrivere un contratto – si ricordi che queste donne scelgono volontariamente di entrare in relazione con i trafficanti – non è possibile parlare, con leggerezza, di schiavitù; è più fecondo, forse, restare in un’ottica di sfruttamento lavorativo, di violazione di diritti umani o di servitù.
Una volta che una ex prostituta diviene madame, il suo compito è quello di raggiungere le giovani reclute, istruirle, accompagnarle nel viaggio, proteggerle, controllarle, sorvegliarle e intimidirle, il tutto in una solida rete composta da molte altre figure sia maschili che femminili: vi sono gli ogha, uomini la cui posizione sarebbe equivalente alla loro, i connection men (o trolley), giovani che scortano le ragazze nel tragitto fino alla Libia e le petite madame (o sisters), ex prostitute che però necessitano ancora di un periodo di “formazione” per diventare vere e proprie madame [cfr. Carling, 2006]. Le madame intervengono con la violenza, fisica o psicologica, al fine di rendere collaborative le proprie ragazze, in quanto detengono i mezzi per restare in contatto con gli affetti più cari: qualora non rispettassero gli accordi del debito, le conseguenze per la famiglia in Nigeria potrebbero essere terribili e la vendetta del juju le colpirebbe senza pietà [cfr. Beare, 2010].
Diventare madame: un desiderio culturalmente connotato
«A un certo punto del viaggio a Carol si sono congelate le dita delle mani. Dice: era la mano sinistra, per l’esattezza. E mica l’hanno portata in ospedale. Gliele hanno tagliate lì dove stava, con una specie di machete. Quando è arrivata in Italia l’hanno mandata sulla strada. Lei ha detto no, non voglio, non posso. Ha mostrato il moncherino: guardate la mia mano, ha detto. Guardate, ha detto, io non sono in grado di lavorare. Per fare il lavoro che devi fare, le mani non ti servono. Proprio così. È questo quello che le hanno detto. E la Carol di allora non era ancora la Carol di oggi, era una ragazza come le altre, una che non è riuscita a reagire, che è andata a lavorare, e lavorando ha pagato il debito. Quando ha finito di pagare ha detto: voglio fare i soldi anch’io. Io con questa mano non posso fare altri lavori. Ha ordinato anche lei una ragazza e adesso ne ha più di dieci che lavorano per il suo guadagno, e alle prime ha fatto fare tutto il viaggio lungo, esattamente come le era toccato di fare. Per vendetta, dici. Può essere. Oggi come maman è spietata. Quando una ragazza si ribella, lei dice: cosa credi, guarda le mie mani, non ci metto niente a tagliarle anche a te. […] Prima è toccato a me, adesso tocca a loro. È così che va il mondo, dicono. E forse è il loro modo di venire a patti con quello che hanno passato. Di farsene una ragione.» [Aikptitanyi, Maragnani, 2017, p. 44:45].
Isoke Aikpitanyi è una donna nigeriana che ha vissuto in prima persona la brutalità dello sfruttamento sessuale e, grazie all’aiuto degli enti anti-tratta italiani, è riuscita ad uscirne e a costruirsi una vita nuova e serena nel nostro Paese. Si è sposata e ha pubblicato il libro Le ragazze di Benin City, in cui illustra, attraverso le storie e i racconti di molte altre vittime, i meccanismi che le spingono ad avere un unico desiderio, e cioè quello di emanciparsi dalla condizione di servitù diventando madame. Sindrome di Stoccolma, disperazione, assenza di alternative, vendetta: sono questi i motivi alla base della volontà di passare dalla posizione di sfruttate a quella di sfruttatrici [ibidem]. Ma sarebbe anche un desiderio connotato da elementi culturali: in Nigeria vige una dottrina dell’abbondanza, per cui l’emancipazione, per alcune frange sociali, si gioca anche – se non soprattutto – a livello economico.
Quando le madame tornano dall’Europa sfoggiando accessori costosi, gli occhi del vicinato sono puntati su di loro; insomma, non importa come, basta che ci si arricchisca [ibidem]. Inoltre, la narrazione diffusa sulla condizione femminile in Nigeria rende una donna accettabile agli occhi della società se è madre e moglie; laddove non vi siano queste condizioni, divenire madame (o maman), innesca un gioco di parentela fittizia e conferisce dignità [cfr. Taliani, 2019].
Le chiamano madame, quindi, epiteto carico di rispetto, ma anche mama, mommy, auntie (“zietta”), sister, decisamente più affettivi: le vittime di prostituzione lasciano la famiglia in Nigeria e, da quel momento, la madame sarà la donna a cui obbedire, ma anche l’unica di cui fidarsi e la sola che incarnerà una figura materna a loro vicina. «Judith, la mia grande amica. Ci ho messo molto tempo, mesi, anni, a capire che era lei la mia maman. La mia sister, la mia momma, la mia sfruttatrice e magnaccia e padrona» [Aikpitankyi, Maragnani, 2017, p. 20].
Il confine tra violenza e benevolenza diviene labile: non ci si dovrebbe stupire, quindi, se il percorso di recupero di una vittima di tratta risultasse travagliato, segnato da dolore e diffidenza.
Ylenia Brusoni
[1] Nati nell’epoca critica del post-colonialismo (fine degli anni Cinquanta del secolo scorso), gli studi culturali formano una corrente letteraria, storica, filosofica, socio-antropologica che decostruisce i sistemi di oppressione e i suoi significati. In questo contesto, Foucault restituisce il senso del termine schiavitù come una lettura a senso unico, che mette in ombra il margine di agency dei soggetti [cfr. Foucault, 1992].
Bibliografia
Akinpelu, B. A., (2015), “Trends and patterns of fatalities resulting from cult societies and belief in witchcraft in Nigeria (2006-2014)”, in Ifra-Nigeria working Papers Series, n. 40.
Aikpitanyi, I., Maragnani, L., (2017), Le ragazze di Benin City, Melampo Editore, Milano.
Beare, M., (2010), Women and organized crime, Research and National Coordination Organized Crime Division Law Enforcement and Policy Branch Public Safety Canada, Report no. 13, vol. 4
Carling, J., (2006), Migration, Human Smuggling and Trafficking from Nigeria to Europe, International Peace Research Institute, Oslo.
Foucault, M., (1992), Le tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino.
Ikeora, M., (2017) The Role of African Traditional Religion and ‘Juju’ In Human Trafficking: Implications for Anti-Trafficking, Journal of International Women’s Studies, Vol. 7, N.1.
Kienast, J., Lakner, M., Neulet, A., (2014), The role of Female Offenders in Sex Trafficking Organizations, Regional Academy on the United Nations.
Prina, F., (2003), “Trade and Exploitation of Minors and Young Nigerian Women for Prostitution in Italy”, UNICRI, Programme of action against trafficking in minors and young women from Nigeria into Italy for the purpose for sexual exploitation, Torino.
Taliani, S., (2019), Il tempo della disobbedienza. Per un’antropologia della parentela e della migrazione, Verona, Ombre Corte.
Ciao! Volevo fare i complimenti per questo articolo: in poche righe racconta un mondo del tutto sconosciuto ai più – di sicuro a me – con precisione e una documentazione per niente scontata!