Lo straniero tra “noi”: opportunità di speranza, identità che minaccia.

Gli stranieri sono alle porte [cfr. Bauman, 2014], e l’incontro con costoro è del tutto inevitabile [cfr. Buber, 1948]. È inevitabile poiché l’umanità ha da sempre cominciato a muoversi alla ricerca di una condizione migliore in cui sopravvivere e perché l’altro è il necessario specchio di sé per giungere verso la totale alterità insita in ogni persona [ibidem]. Necessità, inoltre, che pone l’uomo «non come individuo autonomo, autosufficiente e interamente proprietario di sé, ma quale soggetto originariamente e ontologicamente mancante» [Marci, 2018: 116], e perciò ha bisogno di uno specchio adatto da cui porre la condizione della propria esistenza e/o della propria identità sociale, individuale e culturale [cfr. Remotti, 2021].

“Lo” straniero

La figura dello straniero, nel corso del tempo, si è vista addossare su di sé varie nomee con cui essere definita dagli abitanti del posto. Nella tradizione dell’ebraismo, così come in quella del cristianesimo e dell’islam, Abramo tratteggiava in parte la figura dello straniero, primo e comune patriarca per i tre i monoteismi qui citati. Una figura che congiunge e richiama le radici comuni di tali popolazioni religiose e della quale nessuna delle tre potrebbe appropriarsene in quanto anch’egli “straniero” rispetto all’ebraismo, al cristianesimo o all’islam [cfr. Monge, 2019]. Analizzare la figura del patriarca Abramo, in questo contesto, permetterebbe di osservare, seppur in modo breve, come egli abbia non soltanto influenzato e costituito in parte il percorso storico-religioso dei tre monoteismi abramitici, ma che la stessa concezione dello straniero abbia altresì accompagnato lo scenario storico, religioso e sociale che ancora influenza l’immaginario collettivo.

Nella stessa scrittura veterotestamentaria, in particolare nel libro dell’Esodo è scritto che il forestiero non dovrà essere né molestato e né oppresso [22,20] in quanto non soltanto Abramo era un errante, un senza fissa dimora che viveva in una tenda (simbolo di precarietà), ma lo stesso aveva risieduto in Egitto in qualità di forestiero [Deuteronomio 26,5]. Prendendo così coscienza della propria condizione di gērîm wetôšābîm, di «forestieri e ospiti» [Levitico 25,23], il popolo ebraico inizierà a dare vita ad un’etica dell’altro in cui al concetto dello straniero inteso come hospes, ovvero come ospite mandato e dono del Signore, si affianca quello dell’hostis, ovvero il nemico. Un gioco, quindi, in equilibrio tra la specularità rassicurante e l’inquietudine perturbante, proprio come la condizione ambivalente ed equivoca nella quale si presta l’uomo dinanzi al totalmente altro, che suscita assieme terrore e fascinazione, attrazione e repulsione [cfr. Otto, 1917].

“Gli” stranieri

Ma se dal singolo straniero può essere percepita la presenza di una totale alterità, quella divina e mandata da Dio, diverso è il caso in cui si tratti di più e differenti stranieri. «Dio ama lo straniero» [Deuteronomio 10,18], ma un caso è lo straniero e la sua singolarità, un altro, ritiene il Cardinal Martini, è la pluralità di stranieri, di popoli interi che, come un esercito, sono una minaccia per la comunità di “noi” umani e per la fede .

Questo stato di minaccia accompagna e interessa i temi dei giorni d’oggi, difatti, recuperando in parte le parole di Bauman, delle due condizioni dell’alterità ne viene sottratta, recuperata e lavorata solamente una: quella del terrore, del tremendum, ossia lo sgomento e il sentimento di fuga, lasciando invece da parte il fascinans, la percezione e il movimento di avvicinamento e d’interessamento all’altro. Così, quando popoli interi vengono percepiti come la minaccia per il “noi”, ciò che viene messo in moto è un processo di «securitizzazione» con cui creare un sistema di protezione per allontanare dal proprio paese e tenere a distanza lo straniero [Bauman, 2014: 24].

Un altro tipo di minaccia è quella rivolta alla fede. Il giurista Mario Ricca a ciò ritiene che non è un caso che uno Stato laico, come ad esempio l’Italia, si stia fortemente interessando alla “fede nazionale” o al proprio patrimonio culturale e religioso. Questo interessamento avrebbe così avviato quel cammino di de-secolarizzazione, di riavvicinamento tra la religione e la politica, con l’intento di ribadire e di riconfermare le radici nazionali e tradizionali che le sono proprie [cfr. Ricca, 2012]. In questo meccanismo, se l’altro che viene da fuori non appartiene alla religione di maggioranza ma ad un’altra, allora “egli” e “loro” sono una minaccia per l’integrità della fede di tutta la popolazione e dei valori delle future generazioni di quella data nazione [ibidem].

Lo slogan che viene innalzato da quella politica più tradizionalista e che ha recuperato per sé i caratteri della fede soprattutto cristiana (soprattutto in Europa) cita le parole del Papa emerito Benedetto XVI, secondo cui «prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare» [Benedetto XVI, 2013: 1]; un diritto che per questa politica bisogna rispettare.

L’avvento degli stranieri, quindi, potrebbe rappresentare una minaccia per l’integrità e l’incolumità non soltanto fisica, in quanto essi verrebbero secondo alcuni per uccidere, ammazzare o stuprare gli autoctoni (tutti leitmotiv che alimentano lo stato d’inquietudine), ma anche sociale o politica, come ad esempio lo stereotipo secondo il quale sarebbero arrivati per rubare il lavoro. Così, in uno Stato in cui il lavoro è associato al primo articolo fondamentale che definisce la natura, la struttura e il movimento che lo guidano costituzionalmente, l’assenza di tale lavoro corrisponderebbe per gli autoctoni ad un’operazione di «umiliazione sociale e di negazione della dignità» da parte degli stranieri [Bauman, 2014: 27]. In aggiunta a questo, una minaccia invece basata sull’insicurezza silenziosa e sull’incertezza di un imminente agguato di carattere religioso sarebbe da ravvisare nel terrorismo [ibidem]. Una questione che viene descritta dal primo ministro ungherese Viktor Orban con l’affermazione secondo cui «i terroristi sono fondamentalmente migranti» [ivi, 2014: 28].

È in questo scenario che gravita oggi la figura dello straniero, uno straniero che viene percepito secondo questa prospettiva di minaccia incondizionata in modo indiscriminato − se non discriminatorio − senza fare per esso alcuna distinzione tra le cause per cui è giunto in terra straniera e la condizione giuridica con la quale vi risiede. Distinzione, questa, che permetterebbe di definire una propria specificità tra straniero, migrante, immigrato e rifugiato. Sembra che non molti sappiano distinguere fra queste figure. Domandando a un autoctono il numero approssimativo dei rifugiati presenti nel suo paese, questi probabilmente darebbe una cifra che non rappresenta il dato oggettivo. Piuttosto, proporrebbe un numero fittizio ma in linea con la sua idea di invasione in corso [cfr. Bauman, 2014].

Perciò, quanti sono gli stranieri in Italia?

Il 20% degli italiani sa rispondere in modo corretto, ponendo la quota a circa 5 milioni di persone, mentre lo stesso 36% stima il numero attorno ai 20 milioni, inoltre, il 97% degli italiani ha la percezione che questi stranieri siano in forte aumento [cfr. Zinola, 2021]. Questi dati sono utili per comprendere la confusione che talvolta può colpire un individuo, il quale potrebbe sostituire le cifre che appartengono agli “stranieri” − in breve, cioè coloro che non hanno la cittadinanza italiana − con quelle inerenti ai richiedenti asilo e/o rifugiati.

Se il rifugiato è colui «che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese» , allora non si tratta più di 5 o 20 milioni di persone, ma di 207,619 persone rifugiate in Italia .

Per questo motivo, quando i numeri vengono percepiti in modo soggettivo e la paura ne detta la cifra; quando lo “straniero” viene definito essere la paura stessa e la causa dei propri mali, che arrivano per occupare terre e per depredare il lavoro e la dignità da chi risiedeva già qui; per questi e altri motivi, allora, con lo scopo di fare chiarezza e di risolvere i dubbi, il 20 giugno del 1951 le Nazioni Unite decisero di indire la Giornata internazionale del rifugiato con il principale scopo di commemorare l’approvazione della Convenzione di Ginevra che regola e tutela il diritto dei rifugiati. Giornata che venne celebrata per la prima volta nel 2001, a cinquant’anni dall’approvazione, e che assieme all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) celebra la forza, il coraggio e la perseveranza di milioni di rifugiati.

damiano pro

Damiano Pro

Info

 

 

 

Bibliografia

Bauman, Z., Stranieri alle porte, Laterza, Roma, 2014.

Buber, M., Il problema dell’uomo, Marietti, Torino, 2019 (1948).

Ricca, M., Pantheon: agenda della laicità interculturale, Torri del vento, Palermo, 2012.

Marci, T., La società degli altri. Ripensare l’ospitalità, Le Lettere, Firenze, 2018.

Monge, C., Oser l’hospitalité, Cerf, Parigi, 2019.

Otto, R., Il sacro, SE, Milano, 2018 (1917).

Remotti., F., L’identità, Cortina Raffaello, Milano, 2021.

Sitografia

Benedetto XVI, Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (2013). “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”, in: vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/migration/world-migrants-day/

Zinola, A., Quanti sono (davvero) gli stranieri in Italia?, in lacittanuova.milano.corriere.it:
lacittanuova.milano.corriere.it/quanti-sono-gli-stranieri-in-italia-dati-veri-e-visione-distorta

www.unhcr.org/it/chi-aiutiamo/rifugiati/

www.unhcr.org/globaltrends2019/

www.withrefugees.unhcr.it/

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