“Tutti i bambini crescono, meno uno. Sanno subito che crescono, e Wendy lo seppe così. Un giorno, quando aveva tre anni, e stava giocando in giardino, colse un fiore e corse da sua madre. Doveva avere un aspetto delizioso, perché la signora Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò – Oh, perché non puoi rimanere sempre così! – Questo fu quanto passò fra di loro circa l’argomento, ma da allora Wendy seppe che avrebbe dovuto crescere” – J. M. Barrie
Non tutti i bambini sono come Wendy, non tutti sono destinati a diventare grandi: uno di loro, in particolare, rimane imprigionato in un’isola che non c’è che prende la forma di una infanzia eterna, senza confini o apparenti vie di fuga. Accade spesso che per le persone con disabilità l’adolescenza, comunemente definita come «età dell’oro», si configuri come l’«età della stagnola»: una «terra di nessuno» sospesa al confine tra infanzia e adultità; una fase esistenziale in cui indossare una inautentica maschera da Peter Pan (Lepri e Montobbio, 2000).
Abitualmente, per l’adolescente con disabilità la famiglia e i servizi sono gli unici interlocutori affettivi, nonché le sole sorgenti di gratificazioni. La frequenza di contesti circoscritti (scuola, famiglia, centri diurni e pomeridiani) e la mancanza di legami significativi col gruppo dei pari ha pesanti ricadute sulla formazione dell’identità dei giovani con disabilità perché precludono ogni possibilità di sperimentare nuovi ruoli, di ricercare negli altri e nella pluralità delle esperienze i frammenti della propria futura identità adulta (Erikson, 1999; Lepri e Montobbio, 2000). A differenza di Peter Pan le persone con disabilità non scelgono volontariamente di vivere nell’eterno ritorno dell’infanzia: questa non-scelta è frutto delle lenti con cui, spesso inconsapevolmente, osserviamo il mondo e delle attese di una società̀ che, attraverso la cultura, definisce aprioristicamente i confini dell’età adulta, chi ci si aspetta ne faccia parte e con quali ruoli e modalità (Lepri, 2020).
Ma come possiamo ridisegnare quei confini per renderli più inclusivi? Come possiamo sostenere gli adolescenti con disabilità nel loro percorso di emancipazione dal destino dell’eterna infanzia?
Dove si “nasconde” l’infantilizzazione?
Il primo passo per combattere l’infantilizzazione delle persone con disabilità e garantire loro il diritto di accedere al mondo adulto è divenire consapevoli delle insidiose e concrete modalità attraverso le quali questa visione prospera. Stout, in un articolo pubblicato nel 2020 su The Autism Site, compie un’attenta analisi di questo fenomeno che guarda alla disabilità come a una “mancanza” – di capacità, intelligenza, autonomia – che si cerca di colmare, soprattutto in ambito familiare, attraverso l’iper-protezionismo. Ma l’assunzione di modalità relazionali vittimistiche o assistenzialistiche sa essere una pericolosa “arma a doppio taglio” perché connessa all’esigenza di non far incontrare alla persona con disabilità le parti più dolorose e i ruoli più faticosi che compongono l’identità adulta (Friso, 2017).
Nella quotidianità, le dinamiche dell’infantilizzazione possono avere diverse forme e “nascondersi” dietro comportamenti più o meno consapevoli. Ad esempio:
- Cambiare il registro linguistico; l’utilizzo del baby-talk; il parlare più lentamente o con un tono più acuto; attingere a un vocabolario estremamente semplificato;
- utilizzare i nomignoli, solitamente riferiti ai bambini o animali domestici (sweetie, honey) in contesti di prima conoscenza, esterni a quello familiare o romantico;
- parlare al posto di una persona o non parlare direttamente con lei, chiedendo informazioni a terzi, nonostante la persona in questione sia in grado di rispondere autonomamente;
- compiere una scelta al posto della persona con disabilità non tenendo in considerazione il suo punto di vista;
- essere estremamente protettivi; nascondere le informazioni a persone che hanno la giusta maturità per poterle elaborare; proibire un’attività adatta all’età anagrafica della persona con disabilità (Stout, 2020).
Perché riflettere sulle parole che scegliamo di utilizzare?
Le parole veicolano significati, disegna prospettive e racconta, per utilizzare un linguaggio caro a Gregory Bateson, «le cornici di cui facciamo parte» ossia quelle premesse che determinano le nostre abitudini di vita e di pensiero. Gli errori insiti nelle premesse sono difficili da rintracciare proprio perché, sin dalla prima infanzia, diventano parte di un bagaglio culturale che si dà per scontato e a cui si rivolgono pochi “perché?”. Per tali motivi diviene necessario realizzare un’autentica pratica riflessiva, l’unica strada che permetta di fare chiarezza sui propri presupposti per saperli, ad ogni passo, esplicitare (Demozzi, 2011).
Le conseguenze di queste parole, combinate agli atteggiamenti svilenti sopra descritti, sono estremamente rischiose. Stout (2020) ci pone l’esempio di una persona con disabilità a cui è sempre stato negato attingere a informazioni riguardanti la sessualità: come sarà per lei possibile comprendere cosa sia il consenso; cosa è rischioso o inappropriato; quali forme assume l’abuso sessuale?
Come davanti a uno specchio: disabilità e rappresentazione
Inoltre, sottolinea con preoccupazione Stout (2020), l’infantilizzazione può dar vita a una «profezia che si autoavvera»: supporre che una persona non sia in grado di compiere autonomamente delle decisioni dinanzi ai bivi della propria vita, può portare a un circolo vizioso fatto di comportamenti che la renderanno sempre più dipendente, irresponsabile e incapace di autodeterminarsi. Questo perché la rappresentazione sociale del proprio sé viene costruita anche attraverso le immagini che gli altri ci restituiscono (Friso, 2017). Una simile constatazione ci richiama alla responsabilità, poiché ognuno di noi, nel suo piccolo e con le proprie lenti di osservazione, contribuisce alla realizzazione dell’identità dell’altro.
Adottare quest’ottica non è scontato ma frutto di un percorso di cambiamento che si colora di una nuova urgenza: quella di educare costantemente il proprio sguardo, affinché possa essere sempre più consapevole e inclusivo. Scegliere di utilizzare un linguaggio che sia rispettoso delle peculiarità della persona a cui ci stiamo rivolgendo è fra i primi passi per combattere le discriminazioni abiliste. Questo perché le parole danno forma al mondo ed è nostra responsabilità conferire loro una forma sempre più ampia, capace di accogliere tutte le persone nella loro irripetibile unicità.
Verso un’educazione “strabica”
Davanti a ogni discriminazione che vuole ingabbiare le persone con disabilità in un eterno presente è essenziale ricordare che l’educazione non esiste senza il futuro: necessita di pensarsi in prospettiva, attraverso l’adozione di uno «sguardo strabico» che rivolga un occhio all’oggi e uno al domani. Quindi, per realizzare un Progetto di Vita che si sradichi dall’isola che non c’è è essenziale lavorare sul presente avendo cura anche del futuro, mediando tra limiti e risorse e decostruendo le stereotipate rappresentazioni della disabilità (Friso, 2017; Vicari, 2007).
Operare tenendo bene a mente lo slogan «pensami adulto» di Mario Tortello è una preziosa opportunità per garantire “a tutti e a ciascuno” la possibilità di crescere, scoprendo le proprie inclinazioni, fragilità, potenzialità; di assumere un ruolo socialmente riconosciuto e tratteggiare gradualmente i tasselli della propria identità. È fondamentale, quindi, che la progettazione didattica e educativa abbia fra i suoi obbiettivi prioritari quello di far riacquisire alla persona con disabilità la giusta consapevolezza di sé, dei propri limiti e risorse, affinché́ possa riappropriarsi della cura di sé e della fiducia necessaria alla ridefinizione resiliente del proprio Progetto di Vita (Gaspari, 2021)
Cosa significa essere professionisti inclusivi?
Essere professionisti inclusivi significa intravedere nella persona di cui abbiamo cura ciò̀ che neanche lei ha ancora avuto occasione di cogliere: per farlo, è fondamentale rivolgere lo sguardo oltre le apparenze e adottare il motto, tramandatoci da H. Von Foester, di «credere per vedere» (Caldin e Friso, 2016; Von Foester, 1994). Credere, nello specifico, che la persona con disabilità possa conquistare le più̀ piccole e grandi autonomie, emanciparsi dalle prigioni dell’eterna infanzia e progettarsi all’interno di un orizzonte limitato ma aperto alle infinite variabili del possibile.
Sara Marchesani
Bibliografia
Barrie J. M., Peter Pan: Peter Pan nei giardini di Kensington – Peter e Wendy, Torino, Einaudi, 2005.
Caldin R., Friso V., «Diventare Grandi: la famiglia e il permesso a crescere» in Lepri C. (a cura di), La persona al centro. Autodeterminazione, autonomia, adultità per le persone disabili, Milano, FrancoAngeli, 2016, pp. 28-38.
Demozzi S., La struttura che connette. Gregory Bateson in educazione, Pisa, Edizioni ETS, 2011.
Erikson E. H., I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Roma, Armando, 1999.
Friso V., Disabilità, rappresentazioni sociali e inserimento lavorativo. Percorsi identitari, nuove progettualità, Milano, Guerini, 2017.
Lepri C., Diventare Grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva, Trento, Erickson, 2020.
Lepri C., Montobbio E., Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale, Pisa, Edizioni del Cerro, 2000.
Merton R., La profezia che si autoavvera in Teoria e Struttura Sociale. Sociologia della conoscenza e sociologia della scienza (Vol. 3), Bologna, Il Mulino, 2000.
Tortello M., L’integrazione scolastica ha compiuto trent’anni: quattro parole chiave per fare qualità, in Handicap e Scuola, 2001, vol. 97.
Vicari S., La sindrome di Down, Bologna, Il Mulino, 2007.
Von Foerster H., “Visión y conocimiento: disfunciones de segundo orden”, in Schnitman, D.F. (a cura di), Nuevos Paradigmas. Cultura y subjetividad Paidos, Buenos Aires, 1994.
Sitografia
Stout A., «Infantilizing People with Autism isn’t Just Offensive; It’s Also Dangerous», The autism site, 14 novembre 2019
https://blog.theautismsite.greatergood.com/infantilization-autism/