Il farmaco: (s)oggetto biologico e sociale

È possibile guardare al farmaco, inteso quale prodotto della biomedicina, realizzato nei laboratori farmaceutici, oltre la sola visione farmacologica? È possibile studiarlo più in profondità e rivelarne significati di natura socio-culturale? Lo sguardo dell’Antropologia medica e nello specifico dell’Antropologia del farmaco va proprio in tale direzione.

Fin dalla problematizzazione del paradigma medico occidentale verso la fine degli anni Settanta,[1] seguita dai processi di globalizzazione e industrializzazione degli anni Ottanta, antropologhe e antropologi medici hanno cominciato a preoccuparsi dei significati che pastiglie, sciroppi, siringhe arrivavano ad acquisire per gli individui, e a comprendere le interazioni che gli stessi instauravano coi tessuti sociali preesistenti a cominciare dai contesti del sud del mondo fino alle realtà del nord.[2]

Lettura antropologica del farmaco

Van der Geest e Reynolds-Whyte [1989] sostengono che lo charme dei farmaci, il loro essere prodotti altamente richiesti, derivi dalla concretezza: hanno una consistenza fisica, percepibile attraverso il corpo umano e i sensi, primi fra tutti la vista e il tatto. In quanto “cose” vengono caricati dello status di merce: prezzati e inseriti nel circuito di vendita, in aggiunta alle dimensioni ridotte, consentendo di passare dalle mani di individui a borse e tasche di indumenti, acquistano forte mobilità. In più, la materialità diventa mezzo per rendere tangibile la malattia, darle un volto procedendo nel processo di personale elaborazione.

Non da ultimo, il medicinale attiva un processo di riconfigurazione delle relazioni sociali: ciò significa che nel momento dell’assunzione, l’utente si trova faccia a faccia col medicinale e intraprende un trattamento che si fa diretto e individuale con lo stesso, senza la mediazione di figure professionistiche quali medici o farmacisti. «La tangibilità del farmaco, la sua materialità, fa sì che esso assuma una sua particolare peculiarità all’interno del processo terapeutico. È proprio la sua materialità, il fatto che si tratti di un oggetto visibile e concreto, che fa sì che le transazioni, materiali e simboliche, in cui esso è coinvolto assumano una propria veste, differente da quelle che possiamo trovare quando si riflette su altri aspetti del processo terapeutico» [Schirripa, 2015:24].

Quale medicinale?

Un altro punto cardine del medicinale è l’abilità di azione sprigionata con la sua assunzione. In altri termini l’efficacia, che gli consente di essere decretato “buono o cattivo farmaco”. L’efficacia non è tuttavia determinata dalla sola dimensione biologica, dalla farmacodinamica delle molecole [cfr. Pizza, 2005]. I prezzi, i packaging di diversi materiali, dal cartone alla plastica, e di diverse cromie contenenti sciroppi, pastiglie, supposte, possono caricare il medicinale di maggiore o minor funzionamento.

Altresì chi prescrive, distribuisce o consiglia un farmaco, ad esempio la medica di famiglia, il farmacista o il più comune vicino di casa, può caricarlo di maggior forza di azione. Ecco che Reynolds-Whyte et alt., ne parlano nei termini di un’efficacia più ampia, vale a dire di un’efficacia sociale. «Affermare che i farmaci sono sociali significa ricordarci di due lati della stessa medaglia. Per prima cosa, i farmaci acquistano di significato attraverso un’esperienza sociale comune, nel contesto di relazioni sociali. Come secondo aspetto il loro uso nella vita sociale ha relazioni immediate e a lungo termine per quelle relazioni» [Reynolds-Whyte et alt., 2002:169 (traduz. mia D.B.)].

Continuando con tale analisi, la possibilità di accesso al medicinale e così alla guarigione acquista un profondo valore politico. Biehl [2007] nel discutere le fallimentari politiche di gestione dell’AIDS in Brasile, nello specifico all’interno di una piccola comunità di cura, parla del processo di «farmacologizzazione» [ivi:1097]. Il trattamento dell’AIDS è di fatto ridotto alla sola somministrazione di farmaci antiretrovirali. Soltanto coloro che rispettano le regole di assunzione vengono regolarmente seguiti e curati all’interno delle strutture idonee. Per i più poveri e i marginalizzati non sono elaborate vere politiche sociali, continuando così a vivere nello stato di degrado e abbandono senza poter accedere alle cure.

Questo gioco di inclusione/esclusione fa emergere quanto il farmaco sia elemento chiave nella produzione di soggettività e nello specifico di una «cittadinanza farmacologica» [Ecks, 2005:241]. Concetto dotato sì di una dimensione d’azione individuale ma di cui va fortemente messo in luce il complementare lato collettivo e strutturale, performato da agiti politici – che coinvolgono governi, agenzie internazionali – troppo spesso volutamente celati e de-responsabilizzati ma promotori nell’alimentare diseguaglianze.

La biografia del farmaco

Il farmaco dunque, non è solo un oggetto di studio biologico, ma un vero e proprio oggetto sociale. Possiede una propria vita e gli vengono attribuiti significati e valori eterogenei. In ripresa dell’espressione di «biografia dell’oggetto» [Kopytoff in Appadurai, 1986:64], van der Geest et alt. [1996] identificano diverse fasi del ciclo di vita del farmaco, in ognuna delle quali sono coinvolti differenti attori, e svariati «regimi di valori » [Appadurai, 1986:15] sono attribuiti ai medicinali.

  1. Produzione e marketing. Il medicinale non è altro che il risultato di un complesso lavoro di ricerca e sperimentazione intrapreso nei laboratori delle case farmaceutiche. Una volta pronto viene immesso sul mercato per la vendita. I concetti di ricerca scientifica e di competizione commerciale la fanno da padrona in questa prima fase.
  2. Prescrizione. Per poter essere assunti, gran parte dei farmaci devono essere prescritti dagli specialisti della cura. L’atto in sé e l’uso della ricetta possono essere percepiti come sostituto del rapporto medico-paziente e in particolare come presa in carico ufficiale del disagio del malato.
  3. Distribuzione. Le farmacie sono il luogo di distribuzione del farmaco per eccellenza.      Qui il rapporto tra farmacista e paziente è centrale ma al tempo stesso viene messa in rilievo la valenza di realtà imprenditoriale dedita al guadagno in cui il farmaco è principalmente mezzo per il profitto.
  4. Utilizzo. È solo attraverso l’assunzione che il medicinale si realizza appieno. Tale fase si compie attraverso diverse pratiche tra cui l’automedicazione. Altri esempi di agiti riguardano l’adesione piena a indicazioni di assunzione date dagli specialisti oppure la loro modifica.
  5. Efficacia. Come già delineato nel paragrafo precedente, la lente antropologica consente di guardare alla natura costruita dell’efficacia,  dotata sia di dimensione biologica – ossia di contrasto a una patologia – che sociale.

In conclusione, «[…] i farmaci costituiscono un nesso di processi sociali e culturali che includono conoscenze, simboli, credenze, azioni politiche, di profitto, di fiducia e conflitto» [van der Geest, 2011:9, trad. mia]. Diventa fondamentale analizzare tali processi in cui è imbrigliato e i soggetti con cui interagisce. Il medicinale non risulta così soltanto prodotto plasmato da una data società bensì attore plasmante la stessa. E l’Antropologia del farmaco ma in senso più ampio la disciplina antropologica tout court, con la sua vocazione olistica ed etnografica, consente di svelare tale complessità, contribuendo allo studio e alla produzione di sapere attorno al medicinale, complementare a lavori di stampo biomedico.

bernocchiDaniela Bernocchi

Info

 

[1] In primis con la Scuola di Harvard, con gli studi di Arthur Kleinman [1978] e la sua idea di guardare alla biomedicina come una forma di medicina tra altre medicine – accanto a quelle che canonicamente sono identificate come “medicine tradizionali”, tra cui la medicina cinese e indiana.

[2] Ne è un esempio l’antropologo e medico olandese Sjaak van der Geest [1982], che durante il suo lavoro di campo in Ghana sulla sessualità e il controllo delle nascite, si è interfacciato con un medicinale nato come purgativo – Alophen – ma utilizzato come contraccettivo nelle realtà rurali ghanesi.

Bibliografia

Appadurai, A. (1986), The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective. Cambridge: Cambridge Univ. Press

Biehl, J. (2007), Pharmaceuticalization: AIDS Treatment and Global Health Politics. Anthropological Quarterly, vol. 80, no. 4

Ecks, S. (2005). Pharmaceutical citizenship: antidepressant marketing and the promise of demarginalization in India. Anthropology & Medicine, 12(3)

Pizza, G. (2005). Antropologia medica : saperi, pratiche e politiche del corpo. Roma, Carocci.

Schirripa, P. (2015). La vita sociale dei farmaci : produzione, circolazione, consumo degli oggetti materiali della cura. Lecce, Argo.

Reynolds Whyte, S., van der Geest, S., Hardon, A. (2002). Social lives of medicines. Cambridge, Cambridge University Press,

van der Geest S., Reynolds Whyte S. (1989). The Charm of Medicines: Metaphors and Metonyms. Medical Anthropology Quarterly, 3(4)

van der Geest S., Whyte, S., & Hardon, A. (1996). The Anthropology of Pharmaceuticals: A Biographical Approach. Annual Review of Anthropology, 25

van der Geest S., (2011). The urgency of pharmaceutical anthropology: a multilevel perspective. Curare, 34(1-2)

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