In principio si chiamava “GRID” (Gay Related Immunodeficiency Disease); in seguito divenne “4h Disease” (Haitians, Heroin addicts, Hemophiliacs, Homosexuals) in riferimento ai primi campioni studiati, i quali derivavano principalmente dal sangue di consumatori di droghe e uomini che dichiaravano di aver avuto rapporti omosessuali; la principale provenienza di questa popolazione era l’isola di Haiti. Alla sua comparsa nella società umana, l’idea costruita dai mezzi di comunicazione di massa rese l’HIV (Human Immunodeficiency Virus) un elemento carico di significati discriminatori. Fu soltanto una ventina di anni dopo, nel 1981, che la comunità scientifica identificò la malattia con il nome di AIDS, Acquired Immune Deficiency Syndrome, responsabile dell’indebolimento severo del sistema immunitario.
Una volta comprovato che il contagio poteva avvenire attraverso lo scambio di sangue infetto o rapporti sessuali (oltre che per via ereditaria madre-figlio), si diffuse presto il pregiudizio che l’HIV fosse il virus distintivo di specifici gruppi sociali, nonché omosessuali, tossicodipendenti e prostitute, tutte categorie accomunate da due fondamentali costrutti negativi: promiscuità e sregolatezza nella condotta morale. Ecco che, di riflesso, chi risultava sieropositivo veniva, forzatamente, inserito in una delle tre categorie, oltre ad essere considerato un “untore” da cui tenersi alla larga, sia fisicamente che socialmente. Si parlava di una malattia tipica delle zone del mondo contrassegnate da povertà e scarsa educazione. La narrazione dei primi tempi di conoscenza del virus commise l’ulteriore errore, non certo trascurabile, di tenere in ombra tutte delle dinamiche che contribuivano, allo stesso modo, alla sua rapida diffusione: l’eterosessualità e la presenza di positivi anche tra le fasce economiche più abbienti [Thurston, 2019].
AIDS: sfumature culturali del contagio
Il retaggio storico e culturale derivato dai discorsi approssimativi dell’epoca, giunto poi alle generazioni successive, ha prodotto una serie di convinzioni errate difficili da sradicare; nonostante i numerosi progressi della scienza nella gestione del virus e della malattia, oltre che al sempre crescente accesso alla conoscenza della reale situazione dell’HIV nel mondo[1], è venuto a crearsi un filone educativo rispetto ai rischi dell’HIV tutt’altro che proficuo.
La paura di contrarre il virus ha avuto come conseguenza un infelice ostracismo verso categorie di persone divenute il capro espiatorio dell’epidemia in atto. In realtà, la medicina [Bennett, Dolin, Blaser, 2019] ha dimostrato che, non solo le tre categorie in questione (omosessualità, tossicodipendenza e sex work) sono approssimative nell’obiettiva comprensione dell’AIDS nel mondo, ma i soggetti inseriti in esse dalla società risultano oggi quasi più consapevoli e più attenti rispetto ad altri gruppi, quali eterosessuali e fasce sociali benestanti. Vi è, infatti, una molteplicità di elementi, assolutamente non causali per la malattia, da tenere in considerazione per la diffusione del virus; maggiore è l’intersezionalità dei fattori di rischio e discriminazione, più alta è la probabilità di contagio:
- Risorse socio-economiche: la relazione tra HIV e povertà non è diretta [Ronchetto, Ronchetto, 2017]. Non è la povertà a implicare il maggior rischio di contagio, quanto piuttosto la crescente disparità economica all’interno di un Paese con PIL elevato (le aree politiche più colpite sono quelle che sperimentano una rapida modernizzazione, una scomposta crescita urbana e conflitti armati e civili). Le frange di popolazione abbandonate dal sistema economico sono quelle che faticano ad avere accesso alle cure, alle campagne di prevenzione e agli screening gratuiti. Inoltre, la precarietà economica è spesso collegata a fenomeni di stress prolungato, che indeboliscono ulteriormente il sistema immunitario, facendolo risultare ancor più esposto all’infezione.
- Posizione geografica: i paesi in via di sviluppo sono i più colpiti dall’HIV; questo perché alfabetizzazione e accesso all’informazione e alle cure sono destinati alle minoranze abbienti. In testa si registrano Africa subsahariana, paesi caraibici, Asia, Europa dell’est [Bennett, Dolin, Blaser, 2019].
- Genere: più della metà della popolazione affetta da AIDS nel mondo è di sesso femminile [ibidem]. L’ancora oggi presente disparità di genere mantiene le donne di molte culture sottomesse alle volontà maschili; i matrimoni combinati, la discriminazione di genere nell’accesso all’educazione di base e la diffusa violenza sessuale nei confronti delle donne fanno sì che esse siano i soggetti più a rischio. Questo fattore potrebbe già fare vacillare la convinzione che la popolazione maschile omosessuale sia una tra le più colpite dal virus.
- Mascolinità: è comprovato che tra le culture e le subculture fortemente patriarcali e machiste, i maschi adulti tendono a non eseguire test per la prevenzione dell’HIV, né tantomeno a curarsi se malati, perché la sieropositività diviene sintomo di vulnerabilità e di negazione della virilità [Wyrod, 2011].
- Migrazioni forzate: più frequente è la mobilità connessa a spostamenti transnazionali obbligati, più alto è il rischio di contrarre l’infezione [Ronchetto, Ronchetto, 2017].
- Religione: vi sono alcune pratiche spirituali e religiose che associano l’AIDS ad una punizione divina per una condotta morale compromessa. Ne sono un esempio alcune chiese pentecostali che richiedono certificati di negatività all’HIV per poter fare parte delle comunità. Laddove vi siano malati, essi sono spinti a pentirsi pubblicamente davanti all’assemblea, affinché ricevano il perdono di Dio e possano ricominciare una nuova vita all’insegna delle buone regole morali [Mattalucci, 2017].
Oggi
Oggi l’AIDS è sempre più gestibile grazie ai farmaci e alle terapie disponibili e l’aspettativa di vita si allunga sempre di più. Eppure, dei quasi 39 milioni di malati nel mondo, soltanto il 40% si cura[2]. Lo stigma che la società addossa a queste persone resta la ragione principale dell’ostilità verso i test e del rifiuto delle cure per bloccare e controllare l’infezione. Thurston (2019) illustra che il tasso di suicidio tra i malati è due volte superiore a chi è sano; è lo stigma normativo ad intrappolare i malati in un limbo di paura e di giudizio, un vero e proprio processo di criminalizzazione attuato da strutture dominanti (genti e istituzioni) che fanno della sieropositività una minaccia attiva per l’ambiente.
Il virus non è più, quindi, il primo responsabile della morte di molte persone. Piuttosto, è il comportamento che la società attua nei confronti dei malati, rendendoli insicuri, colpevoli, untori: semplicemente, “altri”. Il risultato è quello di una pericolosa auto-stigmatizzazione che sfocia in isolamento ed esclusione, anche laddove vi è un disperato bisogno di aiuto.
Lo stigma si deve e si può combattere. Sensibilizzazione, equità, accesso alle cure, informazione: sono queste le chiavi per una sempre maggiore consapevolezza e riguardo nei confronti delle donne e degli uomini positivi al virus. Per i traguardi raggiunti dalla scienza, il contagio più pericoloso non riguarda l’HIV, bensì l’ignoranza.
“Non è stato l’AIDS il peso più assillante della mia esistenza, ma essere un uomo nero in questa società”, queste le parole diArthur Ashe, tennista statunitense, al giornalista Ralph Wiley. Fu contagiato dal virus con una trasfusione di sangue infetto durante un’operazione.
Ylenia Brusoni
[1] Si ricordi che i progressi della medicina e l’educazione ai rischi e alla prevenzione del virus stanno contribuendo ad un contenimento, se non ad una decrescita, del numero dei contagi [Bennett, Dolin, Blaser, 2019].
[2] UNAIDS, 2020.
Bibliografia
Campbell, C., Skovdal, M., (2011), “Can AIDS stigma be reduced to poverty stigma? Exploring Zimbabwean children’s representations of poverty and AIDS”, in LSE Research Online, Blackwell Publishing Ltd
Bennett, J. E., Dolin, R., Blaser, M. J., (2019), Mandell, Douglas and Bennett’s Principles and Practice of Infectious Diseases, Amsterdam, Elsevier – Health Science Division
Mattalucci, C., (2017), Antropologia e riproduzione: attese, fratture e ricomposizioni della procreazione e della genitorialità in Italia, Raffaello Cortina, Milano
Moroni, M., Dianzani, F., Ippolito, G., (2004), AIDS in Italia 20 anni dopo, Masson, Milano
Ronchetto, M., Ronchetto, F., (2017), “HIV, poverty and inequalities. Epidemiological and social scenarios of an asymmetric pandemic”, in Quaderni di Sociologia, Open Edition Journals, vol. 75, pp. 75-97
Thurston, J. W., (2019), Blood Criminals: Living with HIV in 21st Century America, Weasel Press
Wyrod, R., (2011), “Masculinity and the persistence of AIDS stigma”, Culture, Health & Sexuality, Vol. 13, No. 4
Sitografia
www.unaids.org