Da molti anni i lavoratori migranti, venuti in Italia per cercare lavoro, per scappare dalla guerra e da altre forme di povertà e difficoltà, vengono reclutati dai caporali tramite offerte di lavoro (in nero per la maggior parte delle volte) e pagati a cottimo. Nonostante alcuni di loro siano in possesso di un titolo di studio, di una qualifica, o una specializzazione in determinati ambiti lavorativi, vengono considerati “braccia a basso costo” da utilizzare soprattutto in diversi lavori agricoli [cfr. Cristaldi 2015].
«La mancanza di legami familiari, comunitari e territoriali, le necessità di guadagno, le differenze culturali, la scarsa conoscenza dei propri diritti e le difficoltà linguistiche, costituiscono tutti elementi che caratterizzano un esercito di lavoratori disposti ad accettare anche situazioni disumane e di sfruttamento para-schiavistico» [ivi, p. 121]. Questa collettività si rapporta ai proprietari terrieri e agli intermediari finendo per vivere ai margini della società e in situazioni spesso peggiori di quelle vissute nel paese di partenza.
L’esercito dei braccianti
Un esempio di questo tipo può essere il ghetto di San Severo, situato nell’area del Tavoliere[1], un luogo dove ergono poderi isolati di epoca fascista, senza vetri alle finestre, impianti di riscaldamento, acqua corrente e servizi igienici, queste strutture vengono concesse ai braccianti dai proprietari terrieri o altre volte vengono abusivamente occupate. Non di rado succede che alcuni proprietari murano le entrate e le finestre rendendo inaccessibili l’accesso alle strutture [Ibidem, 2015]. Sempre in quella zona sorge anche un insediamento di baracche, dove i braccianti alloggiano durante i lavori stagionali.
Come sottolinea Flavia Cristaldi, la differenza dei vecchi caporali a quelli di oggi è che in quelli vecchi era presente una sorta di relazione comunitaria che creava pur sempre una forma di legame, «la presenza dei nuovi caporali, italiani o stranieri che siano, crea oggi dei rapporti temporanei e distaccati che non trovano più neanche il conforto dell’appartenenza ad una comunità e volgono lo sfruttamento in schiavismo. Ed è questa doppia condizione di estraneazione (rispetto al paesino del tavoliere in cui non sanno niente e, soprattutto, rispetto al caporale con il quale, per quanto loro connazionale, non hanno nessun vincolo sociale e comunitario) che trasforma i braccianti in schiavi» [Cristaldi 2015:122].
Ascesa sociale: da bracciante a caporale
A differenza di qualche anno fa, oggi, i caporali possono essere stranieri, vecchi immigrati, o anche gli stessi immigrati che sfruttano la loro esperienza e la loro conoscenza del territorio e del sistema. Nel lavoro effettuato da Domenico Perrotta e Alessandra Corrado (2012), è emerso che l’opzione per diventare caporale non è una possibilità di pochi individui, ma è disponibile a chiunque abbia dei contatti, amici (sia tra i braccianti, sia tra gli imprenditori) e un certo spirito imprenditoriale.
La storia di Irina, cinquantenne rumena, può essere utile per comprendere questa ascesa sociale. Nel 2000 arrivata a Roma con i pellegrini del Giubileo, cerca invano un impiego in città, dopo alcuni mesi un suo connazionale offre ad Irina di andare a lavorare nelle campagne del foggiano. Dopo poco tempo, lei e i suoi connazionali vengono abbandonati dalla caporala, e in pochi anni lei diventa caporala a sua volta. «La sua storia è simile ad un’impresa che cresce» [Corrado e Perrotta, 2012:4], successivamente viene raggiunta da famigliari e altri connazionali. Coloro che arrivano hanno bisogno di servizi: trovare un impiego, un’abitazione, ricevere denaro a credito, essere portati sul posto di lavoro. Irina garantisce tutto questo, naturalmente a pagamento [Ibidem, 2012].
Seguendo le riflessioni Di Flavia Cristaldi, possiamo affermare che probabilmente il fatto che i lavoratori sono stranieri facilita tale sistema di sfruttamento. «Il Rapporto sull’agricoltura dell’Inea[2] afferma, infatti, che gli immigrati si collocano in quei settori del mercato del lavoro scartati dagli autoctoni, spesso ben circoscritti sia a livello territoriale che produttivo, creando complementarietà e non concorrenzialità con i lavoratori locali». Continua poi dicendo che «la manodopera aggiuntiva extracomunitaria permette, a breve termine, in alcune aree o settori strutturalmente deboli e tecnologicamente arretrati, la sopravvivenza di attività economiche altrimenti destinate ad uscire dal mercato» [Cristaldi 2015:138-139].
Chi è il caporale?
Il caporalato è una forma illegale di organizzazione della manodopera e dello stesso reclutamento, manodopera destinata a lavoro presso terzi e in condizione di sfruttamento. Molto spesso viene associato alle mafie, infine, è opinione diffusa che il caporalato sia una pratica condivisa nel sud Italia [cfr. Perrotta 2014].
Ma chi è il caporale? Uno dei compiti principali del caporale è quello di reclutare e organizzare le migrazioni stagionali di grandi masse di braccianti, che in certi periodi dell’anno (particolarmente durante il periodo della raccolta di frutta e verdura) si spostano anche di molti chilometri dal loro luogo di residenza per lavoro. Questo sistema di reclutamento della manodopera è in stretta connessione con la trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura, in quanto figure come i caporali sono state, e lo sono ancora, indispensabili per lo spostamento di grosse masse di braccianti. Grazie alle reti sociali che si sono costruite con il tempo, ovvero conoscenza di braccianti che cercano lavoro e di vari imprenditori che necessitano di manodopera, l’arruolamento di individui non è cosa difficile per loro, riuscendo così a formare un mercato del lavoro agricolo sempre rinnovato [ivi, 2014].
Se prima il vecchio tipo di caporalato aveva dei rapporti con i braccianti reclutati, rapporti di amicizia o semplice conoscenza, oggi i rapporti sono distaccati o quasi assenti. La figura del “nuovo caporalato” viene paragonata ad un broker che media tra due sfere sociali separate, imprenditori agricoli e braccianti stranieri, laddove ci sia la necessità di mobilitare rapidamente grandi quantità di lavoratori [cfr. ivi 2014]. Infine, una pratica comune dei caporali moderni è la sottrazione di parte del denaro nella paga giornaliera del bracciante reclutato, o anche la negazione di usare servizi esterni che non riguardano il caporale ma che lui stesso offre a pagamento per i braccianti, come i passaggi tramite automobile o la negazione di possedere un mezzo (anche la bicicletta) così da fargli usare solo i suoi servizi.
Che sia proprio questa necessità di lavoro che va di pari passo con i rapporti distaccati e anonimi tra braccianti e caporali che permette al fenomeno del caporalato di espandersi e mietere sempre più vittime? non di rado succede di sentire o leggere di persone che muoiono sotto il sole a raccogliere pomodori o in altre circostanze di lavoro, persone extracomunitarie che hanno cercato fortuna in un paese che in realtà li ha solo sfruttati. E proprio la storia ci insegna quanto lo sfruttamento e lo schiavismo siano state pratiche sempre esercitate dall’essere umano, che forse ancora oggi, come ieri, abbia assunto nuove forme?
Gianmarco Stramazzo
[1]Territorio pianeggiante situato al nord della Puglia, in provincia di Foggia.
[2] Istituto Nazionale di Economia Agraria.
Bibliografia
Cristaldi, F., 2015, I nuovi schiavi: Gli immigrati del ghetto di San Severo, in Perrotta, D., 2014, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, in Meridiana, n.1
Corrado, A., Perrotta, D., 2012, Migranti che contano. Percorsi di mobilità e confinamenti nell’agricoltura del Sud Italia, in Mondi migranti, n.3/2012