Cracolandia: la colpevolizzazione dei consumatori di droga

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Esiste un luogo dove gli uomini e le donne che vi abitano sono visti dalla popolazione locale come dei veri e propri “zombie”: logorati dal crack, vagano per le strade a racimolare qualche spicciolo per il consumo di droga, esibendo corpi consunti e volti scavati.
Cracolandia – così si chiama per la diffusione capillare e incontrollata del crack – è un ampio quartiere di São Paulo (Brasile) che, con quasi 12 milioni e mezzo di abitanti, è oggi una delle città più urbanizzate e sovraffollate del mondo. L’enorme complesso di favelas è uno tra i più estesi a livello globale e forma un ambiente favorevole allo spaccio e al consumo di droga[1].

La presenza di forti contraddizioni sociali, economiche e urbanistiche che lo caratterizzano, tutti elementi specifici delle periferie in senso lato [cfr. Augé, 1996], ha caratterizzato la formazione di ambienti ostili alimentati da pratiche criminali e comportamenti disfunzionali. Le fondamenta di queste realtà poggiano sul binomio capitalismo-globalizzazione: l’esplosione della ricchezza concentrata in un’area specifica produce disoccupazione altrove; di riflesso, la povertà favorisce delinquenza, degrado e violenza.

Chi è il responsabile?

Oltre allo smisurato consumo di crack, il grande problema di Cracolandia è il discorso egemonico costruito attorno ai suoi abitanti. Chi entra a Cracolandia vede una massa di uomini, donne e bambini che vagabondano per i vicoli delle favelas in cerca di crack, una tra le peggiori droghe in termini di dipendenza e di conseguenze psico-fisiche per il corpo umano[2]. Il suo consumo provoca un’istantanea riduzione dello stimolo della fame ed è per questo che è particolarmente diffuso in aree urbane sensibili [cfr. Fassin, 2013] caratterizzate da alti tassi di povertà.

La realtà di Cracolandia dà vita ad un triste scenario di guerra tra classi.

In questo panorama di dipendenza, si dovrebbe infatti considerare una serie di fattori strutturali che sono la causa e l’effetto di un simile stile di vita. Innanzitutto, il degrado genera e alimenta violenza, criminalità e consumo di droga [cfr. Bourgois, Schonberg, 2009]; inoltre, i cartelli del contrabbando sono i veri e principali responsabili della diffusione della tossicodipendenza in ambienti vulnerabili come le periferie e le baraccopoli [cfr. De Leon, 2016]. Come nota il sociologo brasiliano Aruan Braga[3], la negligenza delle istituzioni nel combattere la criminalità diffusa e le piaghe della povertà gioca un ruolo chiave nell’alimentarsi del circolo vizioso della violenza: i cittadini delle favelas, resi invisibili sin dalla comparsa dei primi agglomerati urbani abusivi, continuano a vedersi negati i più elementari diritti umani, sulla scia di politiche sociali che non hanno fatto altro che inasprire le diseguaglianze sociali.

Ecco che, il caso di Cracolândia, rappresenta un significativo punto di partenza per la riflessione sull’infelice consumo di droga anche nella nostra realtà: si pensi, ad esempio, alle posizioni secondo cui il soggetto tossicodipendente sia l’artefice dei suoi mali e che, di conseguenza, non si meriti il dispendio di soldi ed energie di interventi sanitari e pedagogici di recupero. La colpevolezza di chi consuma droga è una questione aperta e discussa. Se volessimo indagare scientificamente la ragione dell’utilizzo e del consumo di droghe, dovremmo approcciarci ad esse come dei veri e propri fatti sociali e, in quanto fenomeni, considerarle all’interno di una cornice comunitaria e culturale.

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Seguendo il pensiero di Bourgois (2003) e di Garcia (2010), i fattori strutturali della tossicodipendenza sono socio-economici:

  1. Povertà: implica miseria e mancanza di risorse, pertanto il ricorso alle droghe è molto frequente;
  2. Accesso alle risorse: così come nelle favelas, se ad una popolazione viene preclusa la possibilità di accesso ai servizi, la sua gente ripiega sul consumo di stupefacenti e sul loro contrabbando;
  3. Livello educativo precario: laddove l’educazione e la formazione presentino forti criticità, fin dall’infanzia è possibile interfacciarsi con il consumo di sostanze;
  4. Immigrazione non regolamentata: nelle dinamiche migratorie clandestine transnazionali – che implicano quindi, almeno inizialmente, un disorientamento culturale – si osserva una maggiore propensione all’utilizzo di stupefacenti;
  5. Razzializzazione: le situazioni di esclusione sulla base di criteri razzisti provocano un’auto-ghettizzazione che può sfociare in sentimenti di forte solitudine o di criminalità;
  6. Vulnerabilità psichica: una condizione psicologica o psichiatrica clinicamente rilevante può, unita ad una mancanza di reti di supporto, divenire il pretesto per l’utilizzo di droghe;
  7. Famiglie di consumatori: l’esempio gioca un ruolo pedagogico cruciale nella crescita dei figli, che imparano ed imitano sulla scia dei genitori o dei fratelli più grandi.

Scelte obbligate e libertà di rifiutare

Quando si affronta il tema della tossicodipendenza è fondamentale evitare di cadere nell’errore di focalizzarsi sulla colpa individuale: la scelta personale di fare utilizzo di droghe deve essere letta all’interno di un contesto e va presa in esame tutta una serie di elementi che creano le condizioni per un asservimento ad esse. Attribuire l’unica responsabilità al singolo diviene controproducente e soprattutto inutile a risolvere la questione. Autori come Augé e Bourgois trovano infatti, all’origine delle dipendenze, delle grosse falle nel sistema societario; ecco perché bisognerebbe richiamare l’attenzione sul senso della prevenzione, del supporto e del recupero. I percorsi terapeutici si dimostrano oggi uno strumento valido nella guarigione dei consumatori di sostanze ed è necessario che le istituzioni sostengano in modo consistente il terzo settore.

E quando, a consumare, non sono gli “svantaggiati” sociali?

Secondo il filosofo Umberto Galimberti, la contemporaneità assiste ad un fenomeno nuovo: i giovani, per la prima volta nella storia, si trovano di fronte ad un tempo e ad una comunità caratterizzati da una profonda incertezza e questo li porta ad andare incontro ad un pericoloso nichilismo. La precarietà delle sconfinate possibilità offerte, illusioni di una qualche declamata libertà, provoca sentimenti comunitari di spaesamento, tristezza e stati ansiosi: la risposta dei giovani è la ricerca di strumenti che li aiutino a “sentire” il meno possibile o, al contrario, delirano per rispondere a delle aspettative di una società della performance. “Perché i giovani si anestetizzano dalla vita? Perché la vita non li convoca, non li chiama. Oggi i giovani sono vissuti come un problema, non come una risorsa. […] Questo lo si vede già dal fatto che i giovani preferiscono vivere di notte che di giorno, perché di giorno è un mondo organizzato che fa a meno di loro. […] Se non raggiungi gli obiettivi che ti sono stati prefissati, se non hai una presenza dinamica, scattante sul modello americano, allora se non ce la fai ti devi in qualche modo eccitare, non solo con le droghe, ma anche con gli psicofarmaci[4].”

In un’ottica di prevenzione, come spiega Gallimberti (2012), educare i bambini a stare nella frustrazione del raggiungimento del desiderio, aiuta a prevenire dei loro futuri comportamenti dipendenti: quanto più i bambini e i ragazzi vengono ricompensati in fretta, tanto più facile per loro sarà ricadere nella noia del non essere soggetti desideranti; è primariamente questo processo psicologico caratteristico della società consumistica [cfr. Benasayang, Schmit, 2013] che alimenta la voglia di andare incontro all’assuefazione offerta dalle droghe. Controllarlo significherebbe sconfiggere una grande piaga: ai giovani va restituito il potere di scegliere di restare liberi.

«All’inizio fu una cosa del sabato sera e ti senti caricato come un gangster o una rockstar, è qualcosa che fai per ammazzare la noia; la chiamano “scheggia”, un vizietto da niente e ti fa sentire così bene che cominci a farlo il martedì, poi il giovedì e poi sei nella rete. Tutti i ragazzi assennati dicono “a me non succede” ma succede!» (dal film Ritorno dal nulla, S. Kalvert, 1995).

Ylena BrusoniYlenia Brusoni

Info

 

 

 

[1] Per approfondire, “Gli ultimi saranno criminali. Quando il potere forgia le identità”

[2] . Diffusosi negli anni Ottanta, il crack si ottiene dagli scarti della cocaina e prende il nome dallo scricchiolio che fanno i piccoli cristalli quando vengono sciolti con il calore; l’assunzione avviene per inalazione e porta immediatamente ad alterazioni psichiche pericolosissime (aggressività, stati schizofrenici e deliri dati dalle allucinazioni).

[3] Aruan Braga, intervista rilasciata all’Agenzia Dire il 7 maggio 2020

[4] Intervista per WeFree pubblicata il 30 marzo 2009.

 

Bibliografia

Augé M., (1996), I non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano

Benasayag, M., Schmit, G., (2013), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano

Bourgois, P., (2003), In cerca di rispetto: vendere crack a El Barrio. Cambridge University Press: Cambridge, New York

Bourgois, P., Schönberg, J., (2009), Giusto drogato, Stampa dell’Università della California, Berkeley

De Leon, J., (2016), Terra di tombe aperte: vivere e morire sul sentiero dei migranti, Stampa dell’Università della California, Oakland

Fabietti U., Salzman P. C., (1996), Antropologia delle società pastorali, tribali e contadine. Dialettica della fusione e della frammentazione, Ibis, Pavia

Fassin, D., (2013), La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane, Edizioni La Linea, Bologna

Gallimberti, L., (2012), Morire di piacere. Dalla cura alla prevenzione delle tossicodipendenze, Rizzoli, Milano

Garcia, A., (2010), Clinica pastorale: dipendenza e spossessamento lungo il Rio Grande, Stampa dell’Università della California, Oakland

Sitografia

Umberto Galimberti, Giovani, droga, disagio, intervista per il canale Drugs Off del 30 marzo 2009: https://www.youtube.com/watch?v=UQDDUaNQ6BU

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