C’è giustizia per entrambi i sessi?

 

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Immagine realizzata da Martina Lofrinch

Articolo pubblicato in precedenza su Cantù Oggi

Quando ci si accinge ad affrontare il tema della giustizia, non si può prescindere dall’esplorare un fenomeno di ingiustizia sociale tanto pervarsivo da attraversare tutte le epoche e i luoghi: la disuguaglianza di genere. In Italia, infatti, uomini e donne non detengono ancora pari potere (cfr. Zajczyk, 2007). Se da un lato è evidente la profonda trasformazione culturale, avviata dal femminismo e volta al raggiungimento della parità, dall’altro lato quest’ultima sembra essere una meta ancora lontana: le donne continuano ad essere più disoccupate degli uomini, se lavoratrici guadagnano di meno, raramente assumono ruoli di comando, subendo discriminazione e violenza dentro e fuori le mura domestiche (cfr. Istat, 2015). A ciò si aggiunge la tendenza comune a minimizzare o negare la disuguaglianza perché considerata una problematica del passato o di altre culture, riconoscendo come ingiustizia solo i casi eclatanti di discriminazione e violenza (ad esempio, gli episodi di femminicidio). In realtà, la disuguaglianza è un fenomeno pervasivo, poiché frutto di complesse dinamiche psicosociali, che impatta su ogni aspetto della vita quotidiana sia nello spazio pubblico che privato.

Ma quali sono le caratteristiche della disuguaglianza di genere? Innanzitutto, è bene precisare che essa è espressione di una gerarchia sociale che vede negli uomini il gruppo dominante e nelle donne il gruppo dominato, paragonabile alle gerarchie fondate sulla differenza etnica. A differenza delle altre forme di disuguaglianza sociale, però, l’interazione fra uomini e donne prevede l’interdipendenza fra i due gruppi, fondata sull’amore romantico eterosessuale, non prevedendo pertanto l’“intolleranza alla vicinanza” con i membri dell’altro gruppo come in genere accade (fra bianchi e neri, ad esempio). A tal proposito, risulta esplicativo l’esperimento di psicologia sociale di Rudman (2010): «Se si crea una finta società in cui gli “Ehormbs” dominano i “Jumeres”, senza che ci sia interdipendenza fra questi due gruppi, i gruppi si disprezzano vicendevolmente. Aggiungendo  interdipendenza intima, però, all’ostilità si aggiunge la benevolenza: gli Ehormbs, ad esempio, provvederanno a proteggere gli Jumeres, e gli Jumeres ammireranno e apprezzeranno gli Ehormbs per la loro protezione. Sia l’ostilità che la benevolenza sono funzionali per il mantenimento della gerarchia».

Come qualsiasi altra forma di gerarchia sociale, la disuguaglianza di genere prevede un’ideologia che la sorregge, che sorge “spontaneamente” e che viene accettata sia dagli uomini che le donne poiché facente parte della cultura di appartenenza. Tale ideologia è composta dalla coesione di due “sessismi” (cfr. Glick e Fiske, 2001): il sessismo ostile che si manifesta come un’attitudine ostile nei confronti dell’altro sesso a cui vengono attribuite caratteristiche negative e a cui si associano stereotipi ed emozioni negativi; il sessismo benevolo che invece si presenta come un’attitudine ad idealizzare l’altro sesso ed associarvi caratteristiche ed emozioni positive. In tale ottica, gli uomini che descrivono le donne come “esseri superiori” da “mettere su un piedistallo” non contrastano gli uomini che denigrano e svalutano le donne; al contrario, mantengono la disuguaglianza e fanno sì che le donne accettino il ruolo subordinato. Ciò è dimostrato da numerosi studi (cfr. Fisher, 2006; Rudman, 2010): nelle culture con maggiore disuguaglianza di genere c’è maggior livello di sessismo ostile e benevolo, sia negli uomini verso donne che nelle donne verso gli uomini.

Spesso si tende a considerare la disuguaglianza fra uomini e donne come inevitabile perché è diffusa l’opinione secondo cui le differenze comportamentali e psicologiche di uomini e donne siano biologicamente determinate ed immutabili: gli uomini sono considerati “naturalmente” dominanti e prevaricatori, mentre le donne “naturalmente” cooperative e addette alla cura (cfr. Schnabl, 1994; Mebane, 2008). La tendenza a trattare due gruppi sociali come nettamente diversi – presente in tutte le ideologie razziste – risulta però fallace. Secondo la teoria dei ruoli sociali, infatti, è proprio la disparità nei ruoli sociali a determinare le differenze psicologiche e comportamentali nei due gruppi, e a determinare quali tratti e comportamenti sono considerati legittimi per i membri dei due gruppi. In diversi studi (cfr. Eagly, 1987; Fiske, 2002) è emerso che la forza, l’ambizione ed il potere sono attribuiti ai gruppi dominanti mentre l’empatia, la dolcezza e la cura ai gruppi dominati. Non è un caso, infatti, che il ruolo tipicamente maschile del breadwinner conferisce prestigio, favorisce la formazione e l’espressione di forza, ambizione e potere, mentre il ruolo tipicamente femminile del caregiver, invece, è associato ad un basso status e stimola l’interiorizzazione e l’esibizione di empatia, dolcezza e cura.

È proprio la rigida attribuzione di ruoli e tratti a dare origine agli stereotipi di genere ed alle loro imposizioni. In una società connotata dalla disparità di genere, infatti, gli stereotipi di genere divengono normativi: gli uomini devono essere forti, ambiziosi e potenti in ogni occasione, le donne devono essere empatiche, dolci, attente alla propria ed altrui cura.

La violazione della norma porta numerose conseguenze negative nello spazio pubblico e privato, sia per gli uomini che per le donne. Nello spazio pubblico, le donne vengono discriminate al lavoro: numerosi studi, infatti, hanno dimostrato che per le donne è più difficile essere assunte, mantenere il lavoro ed avere una promozione. Ciò accade perché nei posto di lavoro è importante mostrarsi assertivi sicuri di sé, ma se lo fa una donna viola la norma attribuita al sesso femminile della modestia e della dipendenza, e per tale ragione può essere valutata negativamente; quelle che detengono ruoli manageriali vengono valutate in termini negativi, più dei loro colleghi maschi con uguali caratteristiche. Allo stesso modo, gli uomini hanno difficoltà a conquistare lo spazio intimo: sono più fragili nelle relazioni di coppia – poiché non abituati a mostrare sentimenti a causa della norma di genere – e maggiori difficoltà nell’instaurare legami affettivi con i figli; quelli che però si occupano della cura dei figli e della casa vengono discriminati perché considerati meno competenti degli altri (cfr. Rudman e Glick, 2001).

La disuguaglianza fra uomo e donna è, inoltre, all’origine della violenza di genere. Sebbene la violenza non sia originata solo da fattori socioculturali ma anche biologici, essa è più frequente nei contesti sociali in cui c’è più asimmetria di potere fra i due sessi. In particolare, è favorita dall’erotizzazione della violenza e dall’oggettivazione del corpo femminile – in una cultura in cui la donna è ridotta a oggetto disumanizzato (ad esempio con la prostituzione, i night club o la comunicazione massmediatica) si favorisce la violenza (cfr. Volpato, 2011; 2013). La violenza psicologica, economica e sessuale si manifesta negli ambienti lavorativi e domestici e a volte fatica ad essere riconosciuta come tale. Inutile sottolineare le forti ripercussioni psicologiche nelle persone vittime di violenza, o nei bambini che assistono alla violenza intrafamiliare; per questi ultimi, in particolare, i danni possono essere irreversibili: in clinica si è trovata una correlazione fra bambini che assistono alla violenza e l’insorgere di psicosi, disturbi borderline e disturbo antisociale di personalità, difficoltà di apprendimento, disturbi del sonno e d’ansia.

Come ridurre la disuguaglianza, favorendo la giustizia di uomini e donne? Cancellando la rigidità delle norme implicite che assegnano alle donne i ruoli domestici e di cura e agli uomini il ruolo lavorativo; favorendo l’emancipazione delle donne nello spazio pubblico, e l’emancipazione degli uomini nello spazio privato; dando la possibilità alle donne di mostrare forza e potenza e agli uomini sensibilità e gentilezza. Perché, come dice Irigaray, «per dare un’opportunità di futuro alla democrazia, si deve rifondarla fino in fondo […]. Cambiare le relazioni fra l’uomo e donna nella coppia, nella genealogia, in tutti gli incontri privati e pubblici […]. Tale via è d’altronde indispensabile per permettere all’Europa di diventare un’Unione fra cittadini e cittadine e non un gran mercato dove ciascuno(a) gioca alla competizione contro ciascuno(a)». La democrazia comincia a due.


Maria Grazia Cultrera

Bibliografia

Irigaray, L. (1994), La democrazia comincia a due, Bollati Borghieri.

Luberti, R., Pedrocco Biancardi, M. (2005), La violenza assistita intrafamiliare. Percorsi di aiuti per bambini che vivono in famiglie violente, FrancoAngeli.

Rudman, L., Glick, P. (2010), The Social Psychology of Gender: How Power and Intimacy Shape Gender Relations, The Guilford Press.

Volpato, C. (2013), Psicosociologia del maschilismo, Laterza.

Volpato, C. (2011), Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, LaFeltrinelli.

Zaijczyk, F. (2007), La resistibile ascesa delle donne in Italia. Stereotipi di genere e costruzione di nuove identità, Il Saggiatore.

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