Cura ed emozioni: strategie per vivere bene con le persone fragili

 

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Quando parliamo di persone fragili ci riferiamo a tutte le persone che sperimentano difficoltà nello svolgere tutte o parte delle attività quotidiane e che si trovano spesso in una condizione di svantaggio nel partecipare alla vita sociale. Parliamo quindi di persone con disabilità o che vivono situazioni di malattia cronica o temporanea, così come di persone ostacolate nello sviluppo delle proprie abilità o che incorrono in patologie legate all’avanzare dell’età.

Cosa fare, quindi, di fronte ad una persona che spesso vive in un mondo che non comprendiamo e che non ci comprende? Come fare per non sentirci impotenti di fronte a simili situazioni? Esiste un modo per far fronte allo stress che dinamiche così importanti portano con sé?

Dal punto di vista affettivo, assistere un familiare in difficoltà comporta, infatti, un considerevole carico emotivo; si possono verificare reazioni di iper-protezione tali da portare all’isolamento del familiare malato, oppure si può essere vinti dal disagio e dalla frustrazione. Può subentrare inoltre un forte senso di colpa nel momento in cui si decide di affidare il familiare alle cure di terzi, per esempio ad una casa di riposo nel caso di una persona anziana.

Chi assiste un familiare, prendendosi cura della persona nel suo complesso – da un punto di vista relazionale oltre che assistenziale – viene definito caregiver e il suo compito è quello di farsi carico del benessere, ossia della risposta ai bisogni, gli interessi e i valori dell’ individuo. Colui che assume il ruolo di caregiver ha quindi bisogno di apprendere tutte le tecniche che gli consentano di migliorare sia la relazione che il lavoro con il malato, così da affrontare positivamente le situazioni di difficoltà in cui si troverà coinvolta.

Il famigliare tende a farsi carico completamente della persona bisognosa di assistenza, pensando spesso che la stessa non riesca a svolgere alcuni compiti e, dunque, senza nemmeno chiederle di farlo, lasciando spazio alla passività e all’inattività, che conducono gradualmente alla perdita delle funzioni.

In tal senso il caregiver dovrebbe:

  1. agire sempre con l’intento di conservare l’autonomia del familiare;
  2. incoraggiare, dare appoggio, rispettando sempre l’altro, riconoscendogli il suo ruolo;
  3. prestare particolare cura e attenzione alla dimensione relazionale e comunicativa.

In ogni interazione con il familiare possono essere veicolati differenti messaggi e la maggior parte del contenuto emozionale nella comunicazione traspare dall’espressione facciale, dalla postura, dai gesti, dal tono della voce o dalle parole. Ad esempio, persone colpite da demenza possono presentare compromissioni nell’abilità del linguaggio, ma sono perfettamente sintonizzate sugli stati d’animo e atteggiamenti di coloro che li circondano (cfr. Rinoldi, Espanoli e Roncaglia, 2005).

Da tutto ciò si intuisce l’importanza fondamentale di una comunicazione efficace, intesa non solo come il comunicare qualcosa ma anche e soprattutto come dare spazio all’ascolto della persona. Essere ascoltati rafforza il senso di dignità; l’ascolto è lo strumento che permette al soggetto di scoprirsi comprensibile e accettato.

Oltre ai familiari esistono altre figure che prestano la loro assistenza e cura a persone in condizione di fragilità: riveste quindi particolare importanza la relazione con gli operatori socio sanitari, i quali possono, a loro volta, sperimentare impotenza e senso di scarsa auto-efficacia (cfr. Espansoli, 2014). Questi aspetti incidono inevitabilmente sulla qualità del servizio prestato e, conseguentemente, sulla persona, specialmente se non autosufficiente. La spersonalizzazione è la principale causa di tutte le azioni disumane rivolte ai soggetti fragili che si stanno verificando sempre più frequentemente: l’annullamento dell’individuo, la spersonalizzazione degli interventi di operatori che lavorano sempre più su corpi anziché a contatto con persone, il lavoro dei professionisti sempre più incentrato sul “fare” anziché sull’”essere”, conduce all’allontanamento emotivo dal proprio lavoro. Diventa allora di primaria importanza l’attenzione prestata all’aspetto relazionale, fondamentale per ogni professione di aiuto. La dimensione relazionale è lo strumento di conoscenza per eccellenza, che permette di indagare sulla soggettività della persona e, conoscendola, di poter intervenire in maniera individualizzata nel rispetto delle necessità di ciascuno.

L’operatore deve dunque lavorare sulle proprie abilità di comunicazione: diventerebbe, infatti, molto difficile stabilire una relazione se queste fossero limitate.

Oltre alla rete familiare – quando è presente – quella degli operatori sanitari è la seconda fonte di socializzazione per la persona anziana istituzionalizzata, ragion per cui sarebbe molto importante creare, mantenere e rafforzare il contesto sociale all’interno di una struttura residenziale.

La qualità della vita di ogni utente è strettamente collegata alla soddisfazione del lavoro del personale. Il successo di un lavoratore si riflette sul benessere delle persone di cui si prende cura, con cui sarà allora possibile stabilire una comunicazione ed un’interazione soddisfacente. Ecco perché il mondo educativo e socio-sanitario – e, in generale, l’ambito del prendersi cura – avrebbero bisogno di un linguaggio nuovo, meno orientato al mero tecnicismo e sempre più ricco e denso di emozioni.

Daniela Trudu14786991_10210653324879950_1704886433_o

Info

 

 

 

 

Bibliografia

Espanoli L. (2014), De-Mente? No! Sente-Mente, Maggioli Editori

Gaiffi E. (2003), In dinamica comunicazionale, Pedagogia Clinica – Pedagogisti clinici, n. 7

Pesci G., (2012), Pedagogia clinica. La pedagogia clinica in aiuto alla persona, Torino, Omega Edizioni

Rinoldi G., Espanoli L., Roncaglia M. (2005), Dolore e Demenze, Pordenone, Centro Studi Internazionali Alzheimer Pordenone

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