Musei universali: luoghi di contatto o di separazione?

Pitt Rivers Museum, immagine realizzata da M. Brace disponibile su Flickr.com

I musei universali nascono nel XVIII secolo con lo scopo di ospitare oggetti appartenenti a contesti culturali differenti da quello europeo. Con l’avvento del colonialismo infatti presero il via le esplorazioni di continenti che l’Europa osservava con sempre più crescente interesse. Le esplorazioni del periodo sono da inserirsi in un contesto totalmente nuovo dal punto di vista scientifico.

L’occupazione coloniale portò inevitabilmente ad incontrare altre forme culturali che stimolarono la curiosità europea. Attraverso le esplorazioni degli altri continenti, l’Europa arrivò a dotarsi di una serie di musei che avrebbero dovuto mostrare le culture definite all’epoca “primitive”. Queste culture erano intese come “primitive” in quanto, secondo le teorie evoluzioniste che stavano prendendo piede in quel periodo, esse facevano parte di grandi sequenze evolutive che gli antropologi dovevano ricostruire.

Prendendo spunto dalla teoria di Darwin sull’evoluzione, gli antropologi avevano iniziato ad osservare queste culture come «Esempi viventi di Antichità dell’uomo» (Deliège, 2008:17). Le cosiddette società “primitive” potevano dunque servire per illustrare società passate, per spiegare elementi che non erano altrimenti chiaramente definibili. In questo modo si poteva ricostruire -ad esempio- la struttura sociale di una società antica basandosi su queste società “primitive”. Questo portava anche a giustificare l’occupazione europea in quanto gli europei si vedevano come popolo “superiore” rispetto a quelle popolazioni definite “inferiori”. A prova dell’esistenza di questi stadi anteriori vi erano le “sopravvivenze”, elementi di stadi precedenti sopravvissuti in uno stadio più avanzato della civiltà. (cfr. Deliège, 2008).

L’attenzione per queste teorie che cominciavano a fiorire in quel periodo portò all’allestimento di musei che sottolineavano il grado di arretratezza delle popolazioni non europee e, in questo modo, le esposizioni degli oggetti prelevati dai contesti extraeuropei generavano la perdita della valenza originale dei reperti. Un oggetto poteva infatti essere stato usato dalla popolazione d’origine per uno scopo che nel museo universale andava totalmente perduto. Gli oggetti erano quindi considerati non più come strumenti di uso quotidiano o rituale, ma erano elevati al rango di opere d’arte e come tali esposti ed interpretati secondo il filtro della cultura europea, che li esponeva basandosi su quelle che erano le proprie convenzioni culturali ignorando quelle dei paesi da cui questi oggetti provenivano. (cfr. Clifford, 1993).

Dominique Poulot però sottolinea come il patrimonio culturale sia fonte di identità culturale (cfr. Poulot, 2006). Un museo universale diventa dunque fonte d’identità sia per il paese da cui gli oggetti da esso esposti provengono sia per il paese in cui il museo si trova. Gli oggetti esposti entrano infatti a far parte anche dello Stato in cui il museo universale è presente, arrivando ad avere una valenza storica, come testimonianza di una determinata cultura, una valenza artistica, come oggetti esposti in una realtà museale ed una valenza politico-sociale in quanto portatori sia della loro cultura d’origine che del loro nuovo ruolo museale, che genera un aumento del loro significato d’origine rendendoli parte di una collezione e di un percorso museale. Gli oggetti museali assumono dunque dei tratti polisemici, diventano portatori di più di un significato ed acquisiscono inoltre la valenza di «Ponti sull’abisso dell’oblio» (Assmann, 2002:60), che permettono, attraverso una loro accurata selezione, di rappresentare una determinata cultura mediata però da un’altra a cui è dato il compito di interpretarli. Quest’ultima, a cui è lasciato il compito di interpretante, compirà inevitabilmente delle selezioni che porteranno ad una comunicazione da parte degli oggetti plasmata con il metro della cultura che li legge. Il museo risulta dunque essere un punto di contatto tra diverse culture, i cui oggetti possono essere visti in modi diversi anche alla luce dei metodi attraverso cui sono esposti (MacDonald, 2011:35).


Sara Braga

 

Bibliografia

Assmann, A. (2002), Ricordare, Il Mulino, Bologna.

Assmann, J. (1997), La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino (ed. or. 1992).

Clifford, J. (1993), I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino. (ed. or 1988).

Id. (1999), Strade. Viaggi e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino.

Deliège, R. (2008), Storia dell’Antropologia, Il Mulino, Bologna.

MacDonald (2011), A companion to Museum Studies, Wiley-Blackwell, Oxford.

Poulot, D. (2006), Elementi in vista di un’analisi della ragione patrimoniale in Europa, secoli XVIII-XX in Maffi I., Antropologia. Il patrimonio culturale. Annuario anno 6 numero 7, Meltemi, Roma.

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