La genitorialità difficile? Senza dubbio una questione pedagogica!

“La famiglia è educatrice in molteplici rispetti. Se noi ci fermiamo a considerare massimamente l’ufficio educativo della madre, non intendiamo sconoscere l’importanza dell’opera paterna nell’educazione della famiglia” [Angiulli, 1961:72].

Quante volte, come genitori, abbiamo dovuto affrontare comportamenti “difficili” come un capriccio, un pianto inconsolabile o anche un atteggiamento provocatorio di disubbidienza. Situazioni come queste fanno parte della quotidianità di una famiglia. Contrasti e criticità relazionali appartengono alla vita di ogni giorno ma, spesso, possono nascondere sentimenti quali la rabbia, tristezza o paura e costituire la conseguente reazione a situazioni di cambiamento all’interno della famiglia stessa. L’istituzione familiare ha rappresentato fin dal passato un luogo in cui si dibattevano le questioni pedagogiche.

Ai “precettori” del passato, figure a cui era affidato il ruolo di istruire ed educare presso le famiglie, venivano talvolta assegnati compiti di responsabilità decisionale e, succedeva che, quando dei genitori venivano giudicati inadatti all’educazione di un figlio, essi stessi ne indicavano la separazione. Nel tempo, con l’evolversi di questa figura, fino alle competenze educative riconosciute al pedagogista dalla legge, ha iniziato a delinearsi una realistica attività di consulenza familiare e genitoriale ovvero un intervento formativo rivolto ai figli, agli adulti di riferimento, alla famiglia allargata. Il significato della consulenza pedagogica riassume attualmente due aspetti importanti: rendere consapevoli e responsabilizzare, in senso trasformativo, i genitori ovvero le figure di riferimento sulle funzioni genitoriali; formare quello “spazio educativo”, ossia quell’ambiente ideale e fisico all’interno del quale, il pedagogista esperto, osserva il trascorrere delle vicende e valuta le situazioni del vivere quotidiano. Non si tratta esclusivamente di un’attività di trasformazione dei comportamenti. Ciò che avviene nello spazio educativo è un confronto diretto, autentico e senza filtri, finalizzato alla comprensione della situazione. La consulenza in Pedagogia è una partecipazione attiva, definita da competenze professionali di mediazione e da valori etici,  umani. Attraverso il dialogo argomentativo e l’ascolto attivo il pedagogista diviene in questo modo l’altro, il punto di riferimento “neutrale” che affianca il bambino, l’adolescente, i genitori.

La complessità del ruolo genitoriale diventa oggi una sfida impegnativa. Ciò è dovuto anche ad un’evoluzione strutturale della famiglia che ha inglobato nel concetto originario di gruppo di persone, legate solamente da un vincolo di parentela, nuove forme di “comunità”, allargate e diversificate. Nonostante i cambiamenti però, la famiglia rimane quella cellula embrionale dell’organismo sociale, all’interno della quale si svolge un’opera di educazione primaria, responsabilmente, attraverso i rapporti di interdipendenza, che si riflette nella collettività e negli episodi della vita quotidiana. In momenti particolari dell’esistenza, quando si verificano nascite, lutti, separazioni oppure adozioni, molti genitori si trovano di fronte ad un bivio. Gravati dalle loro esperienze, intervengono nelle scelte di educazione senza assumerne le dovute distanze relazionali genitori-figli che, in ogni caso, dovrebbero essere comunque calibrate attorno ad una semantica pedagogica che include tre campi di significati: comunicazione, emotività, cognizione. Educare nelle famiglie in questo modo significa prendere consapevolezza, ascoltare la voce delle emozioni, imparare a pensare che non sempre le decisioni personalistiche corrispondono alla necessità di salvaguardare il benessere dei propri figli, soprattutto quello della sfera affettiva.

Sembrerà scontato concentrarsi sulle situazioni inerenti alla dimensione emotiva di un figlio. In realtà è a questo punto che le cose si complicano esponenzialmente. Un esempio di questa complessità può essere la storia di Luca, un ragazzo come tanti, un giovane adolescente che si ritrova a vivere la conflittualità della separazione dei suoi genitori. Il malessere del ragazzo, riflesso nei sentimenti di colpa non elaborati poiché non comunicati all’interno di uno spazio educativo in modo autentico, si traduce in scarso rendimento scolastico, apatia e perdita di interesse per le attività socio-culturali. Luca fugge la realtà, ricerca sicurezze affettive e non esita a farsi venire a prendere dal padre biologico a scuola. Torna con lui a casa, si ribella alla situazione data, incurante del fatto che all’uscita, ad aspettarlo, c’è il nuovo compagno della madre. Al di là di tutte le ragioni del caso, ci troviamo di fronte ad un triangolo relazionale. Un groviglio, un insieme intricato di sentimenti e risentimenti in cui bisogna trovare il filo della matassa. E in che modo? Avviando un processo di trasformazione? Probabilmente provando a semplificare il processo di percezione degli eventi.

Ebbene, prima di tutto è necessario preservare la funzione educativa della coppia parentale anche in riferimento alle disposizioni legislative. Dopo aver stabilito l’«accordo educativo» ossia un patto condiviso di responsabilità è necessario evitare il cosiddetto «conflitto di lealtà» per cui, i genitori, sono soliti assumere atteggiamenti svalutativi e denigratori verso l’altro. È sempre complesso in questi casi applicare un modello di “mediazione parziale” che privilegia i rapporti interpersonali e gli interessi comuni al fine di evitare gli effetti negativi che possono determinarsi in relazione al grado di sviluppo emotivo raggiunto di bambini e dai ragazzi.  A differenza dell’infanzia, ad esempio, quando una porta che sbatte dietro le urla dei genitori può provocare un senso di smarrimento e di paura, durante l’adolescenza la percezione del fallimento familiare, di quel progetto di vita condiviso fatto di ricordi, sensazioni e pensieri, si traduce in rabbia, impotenza e rischia di sfociare in atteggiamenti pericolosi.

Quante volte, durante un colloquio pedagogico, si incontra lo sguardo impenetrabile di un adolescente. Schivi, impassibili, i loro occhi rivelano i giorni di sofferenza che li hanno fatti crescere. In queste fasi di riorganizzazione delle vicende familiari ciò che si rischia di perdere è quel rapporto di autorevolezza della relazione genitori-figli. Ciò determina una precoce responsabilizzazione dei minori, causata dalle scelte imposte da una falsa stabilità emotiva, quando invece è risaputo che il passaggio dall’adolescenza all’età adulta deve avvenire in modo graduale, rispettando i tempi di maturazione neurobiologica. In pratica, le modalità delle scelte educative ci vengono indicate anche dagli studi neuroscientifici. Essi permettono di comprenderne gli effetti a lungo termine, positivi e negativi. Lo aveva ben detto Andrea Angiulli, noto teorico della Pedagogia, che proprio la biologia, «riconducendo le funzioni mentali nella dipendenza delle funzioni organiche, disvela le leggi dell’educazione fisica e la loro importanza per l’educazione morale». [Angiulli, 1961:16]. In questo caso facciamo riferimento all’ambito delle neuroscienze affettive. Stimati neuroscienziati come Jaak Panksepp ci spiegano come il sistema di accudimento e della cura dei genitori è legato alla produzione dell’ossitocina, un ormone prodotto dai nuclei ipotalamici che influisce sulle modalità di risposta al sistema emotivo della paura. Non solo. Antonio Damasio ha dimostrato che, a livello neurobiologico, ogni emozione provata durante la crescita, fin dai primissimi anni di vita, può lasciare “tracce di storia”, iscritte nel patrimonio identitario che funzionano come i cassetti della memoria. Diventano segnali cognitivi che si attivano automaticamente, davanti agli altri e alle situazioni, determinando i comportamenti futuri e influenzando le scelte ogni qual volta prendiamo una decisione.

Per concludere la panoramica sulla consulenza genitoriale, in riferimento alla situazione data, possiamo valorizzare l’importanza dell’approccio pedagogico nell’intervento di mediazione familiare. In particolare, possiamo dedurre i primi due assunti di base: la necessità di consapevolizzare i genitori a gestire i loro conflitti fuori dallo “spazio educativo” riservato ai figli. In secondo luogo la comunicazione affettiva deve essere rigorosamente autentica. In Pedagogia infatti non conta la quantità del tempo condiviso nello spazio temporale dell’educazione familiare. La cosa importante, ai fini di una giusta educazione familiare, riguarda l’elaborazione dei sentimenti inespressi e ripensati nella solitudine del silenzio. Essa può avvenire anche nello scorrere di pochi minuti, purché fatta di rispecchiamento empatico ed espressa cioè nel vero sguardo affettivo dei genitori.

Angela Pellino

Info

 

 

 

 

Bibliografia   

Ammaniti M., (1997), Crescere con i figli. Le nuove regole dell’educazione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano

Angiulli A., (1961), La pedagogia, lo stato e la famiglia, La Nuova Italia Editrice, Firenze.

Goleman, D., (1996), Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano

Honnegger Fresco G., (1987), Essere genitori, Red, Como

Iori V., (2006), Separazioni e nuove famiglie. L’educazione dei figli. Raffaello Cortina Editore, Milano 2006

Montessori M., (1957), Il bambino in famiglia, Garzanti, Milano

Russel B., (1975), L’educazione del bambino e dell’adolescente, Longanesi & C., Milano.

Sitografia

Zambianchi E., (2014), La trama enattiva della relazione educativa formatività e genitorialità, dottorato di ricerca, pdf

http://afi-ipl.org/wp-content/uploads/1_IPL_Welfare_state_2_Politiche_familiari.pdf

www.politichefamiglia.it

www.treccani.it/enciclopedia/neurologia-delle-emozioni

LEGGE 8 febbraio 2006, n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2006/03/01/

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