Pedagogia e postmodernità: in che modo la città forma ed educa?

 

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Immagine a cura di Michele Ferrarini

La pedagogia, scienza che si occupa dell’uomo e della sua formazione, può offrire un contributo interessante all’analisi della postmodernità? In prima battuta verrebbe forse da sorridere di fronte a una simile pretesa, dato che ci si trova al cospetto di una scienza debole, ridotta ad ancella della psicologia o a surrogato della filosofia, spesso persino incapace di parlare degli oggetti che le sono propri. Non a caso, il pedagogista e filosofo Riccardo Massa più di un ventennio fa parlava di “morte” della pedagogia nella cultura contemporanea affermando che “della pedagogia non si sa pensare altro che possa essere didattica pseudoscientifica o ideologica pseudofilosofica”.

Eppure la pedagogia offre un punto di vista indispensabile alla comprensione della postmodernità proprio nella misura in cui essa è la scienza che ha come suo oggetto privilegiato l’esperienza educativa; e che cos’è se non questo la postmodernità per il soggetto che la vive: un’esperienza che dà una forma specifica alla sua esistenza, una trama pedagogica che produce una determinata storia formativa. Attraverso quali modalità, allora, la vita metropolitana, che rappresenta la più tipica espressione della convivenza postmoderna, forma ed educa un determinato tipo di individuo?

L’aspetto e l’organizzazione degli spazi di una città ci possono comunicare molto rispetto alla condizione di vita dell’uomo.

Esiste una relazione dialettica fra individuo e città, quest’ultima è frutto dell’intenzionalità di chi la progetta, che si riverbera, educandoli, sulle vite dei suoi futuri abitanti, i quali a loro volta, attraverso l’agire quotidiano possono modificare la città, rimodellando sulle proprie esigenze le iniziali intenzioni dei fondatori. Lo stesso Pasolini, in Lettere Luterane, tratta dell’educazione delle “cose”, dell’importanza pedagogica che ebbe nella sua vita una tenda, capace, dal suo punto di vista, di riassumere per intero lo spirito della casa borghese nella quale era nato, a Bologna: con quella tenda non era infatti possibile alcun dialogo o atto auto-educativo, era la “cosa” stessa a educare, tanto che Pasolini a quei tempi finì per pensare che tutto il mondo fosse il mondo che quella tenda gli insegnava. A proposito dell’educazione delle cose, egli poneva una grossa enfasi sulla dimensione repressiva e autoritaria del loro discorso pedagogico. Se ciò è vero, a maggior ragione occorre prestare attenzione alla trama pedagogica urbana, al fine di rendersi consapevoli dei condizionamenti che essa impone all’uomo e alla sua percezione di sé.

D’altra parte, l’educazione che in-segna maggiormente è proprio quella informale, che si muove in sordina e fuori dai canali istituzionali dell’istruzione, promuovendo apprendimenti senza una manifesta intenzionalità pedagogica. Proprio in quest’ottica, dunque, è possibile rintracciare nella città un’intenzionalità, sottintesa, latente e inconsapevole, tesa a generare apprendimenti.

Georg Simmel, in piena epoca moderna, ne mise bene in evidenza alcuni, sottolineando come la base psicologica dell’individualità metropolitana fosse “l’intensificazione della vita nervosa” prodotta dall’ininterrotto avvicendarsi di vicende esteriori e interiori. A questo tipo di vita cittadina corrisponde un certo tipo di uomo, o meglio, un certo modo di essere, espresso dal “blasé”: la persona indifferente, scettica e disillusa. Simmel indica, come causa dell’emersione di questa nuova tipologia di essere umano, la smodatezza dei piaceri tipica della vita metropolitana che sollecita costantemente i nervi e le percezioni sino a rendere l’individuo insensibile rispetto alle differenze fra le cose. Simmel coglie una delle principali caratteristiche dell’uomo medio di città, per cui le cose hanno perso di significato e di valore, tutto è uniforme, scambiabile e relativo. Allora i suoi stati d’animo non potranno che essere improntati all’indifferenza, quella di chi pensa di conoscere ogni cosa, di tutto aver avuto esperienza o visione, di chi non si cura della varietà qualitativa della cose ma, per proteggersi dalla frenesia metropolitana, fa della noncuranza lo scudo dietro cui ripararsi; un utile balsamo forse, anche se non privo di controindicazioni, per rendere più morbida e sopportabile un’esistenza ormai alimentata da ansie, agitazioni e paure.

D’altro canto, la città arcaica era qualcosa di estremamente diverso dal significato tendenzialmente univoco che si è finito per attribuire alle città della post modernità, essa, secondo il filosofo Elémire Zolla, tra le altre cose era concepita come un simbolo a cui era riconosciuta la capacità di saper adeguare la struttura terrestre a quella celeste: attraversata e definita dalla presenza del sacro, essa svolgeva una funzione orientante per l’uomo e la sua esistenza. La città postmoderna si è allontanata dalle sue origini, vuoi per come la si vive, vuoi per il significato e le funzioni di cui la si investe. Oggi non resta che una tragica corrispondenza fra l’uomo e le sue città: quella fra il caos da cui sono contraddistinte e il disagio connesso alla mancanza di senso che pervade chi le abita.

Accanto alle dinamiche postmoderne aleggia anche un profondo senso di insicurezza e di paura, che secondo Bauman ebbe inizio con la cosiddetta deregulation, la riduzione del controllo statale, l’ampliamento delle libertà personali che, sommandosi al venir meno della solidarietà comunitaria, agevolò il ritorno delle cosiddette “classi pericolose”, costituite da soggetti fra loro eterogenei ma ugualmente estranei alle logiche del mercato, superflui, non assimilabili, incapaci di redimersi e perciò irrevocabilmente esclusi. A questa categoria appartiene la figura dello straniero, il cui essere estraneo, sconosciuto e incomprensibile, fa sì che spesso venga percepito come l’ideale capro espiatorio sul quale riversare paure e preoccupazioni.

Mai come oggi l’uomo è stato posto di fronte alla difficile sfida dell’incontro e dello scontro: di sé con l’Altro, del piccolo con il grande, del particolare con l’universale. Ciò potrebbe rivelarsi una feconda e mirabile occasione di formazione per ognuno di noi, ma anche un’ennesima occasione perduta. Un’occasione che potremmo recuperare se imparassimo a fermarci, a riflettere, a prendere tempo. Questo certo richiederebbe un’educazione controcorrente, ribelle rispetto agli esiti formativi del vivere in città, ma anche in aperto contrasto con l’idea attuale di che cosa sia l’apprendimento.

Prendiamo ad esempio il tema della flessibilità, da più autori riconosciuto come uno dei tratti salienti per la comprensione del postmoderno: all’uomo di oggi è richiesta la capacità di essere flessibile e a tal fine si rende necessario l’intervento di uno specifico sistema formativo che lo renda capace di sostenere i ritmi di un apprendimento che non potrà mai dirsi definitivo, ma che al contrario dovrà rendersi permanente, affinché esso possa essere competitivo, adattabile alle novità ed efficiente. Grazie alla formazione continua, l’uomo di oggi è in grado di stare al passo con i tempi, di apprendere velocemente nuove conoscenze, di sviluppare nuove competenze e abilità nei termini accelerati richiesti dal gioco della postmodernità. Tuttavia, sembra che spesso a cotanta formazione non corrisponda un vero e proprio apprendimento, inteso come rielaborazione dei contenuti, come interiorizzazione di nuovi elementi adatti a ristrutturare la persona. Anzi, tanto più veloce è l’apparente apprendimento, tanto più rapido è il movimento attraverso cui avviene l’eliminazione di ciò che non sembra essere più necessario. Forse ora si potrà meglio comprendere perché Massa parlasse di “morte della pedagogia” nella misura in cui viene assegnato all’istruzione il predominio sull’educazione, l’educare si riduce ad una questione di tecniche, di didattica, di oggettività, di trasmissione di contenuti e di efficienza. Ad ogni modo, ciò che emerge da tutto ciò non potrà che essere, nuovamente, un’incertezza affatto neutralizzata, giocoforza rinnovata da una vita episodica, vissuta all’insegna della frammentazione.

Forse oggi ci troviamo di fronte a una vera e propria mutazione delle modalità di apprendimento. L’idea di apprendimento come approfondimento, come problematizzazione, come rielaborazione critica, sembra essere superata a favore di movimenti superficiali, orizzontali, veloci e puntuali. L’apprendimento, a tali condizioni si riduce a mero comportamento adattivo, appiattito ad un’attività di addestramento, per cui ad uno stimolo corrisponde una risposta, snaturando così il cuore stesso della proposta educativa per sua natura apertura verso il cambiamento. Quindi sì, in questi termini forse l’educazione è morta. Allora la vera domanda che ci dobbiamo porre è se la pedagogia saprà riportarla in vita.

Melinda Ragazzi

 

Bibliografia

Massa, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Edizioni Unicopli, Milano, 2000

Sobrero, A., M., Antropologia della città, Carocci, Roma, 2005

Davico, A. Mela, Le società urbane, Carocci, Roma, 2009

Zolla, Che cos’è la tradizione, Bompiani, Milano 1971

Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, Milano, 2009

Tramma, Che cos’è l’educazione informale, Carocci, Roma, 2009

Simmel, P., Jedlowski, (a cura di), Le metropoli e la vita dello spirito, Armando editore, Roma, 2009

Palmieri, (a cura di), Crisi sociale e disagio educativo, spunti di ricerca pedagogica, Franco Angeli, Milano, 2012

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