La sezione di psicologia in passato ha affrontato questo argomento nell’articolo “Lo strano caso delle morti voodoo”, un breve approfondimento sull’effetto psicosomatico che una cultura può esercitare (tema proposto anche nell’articolo “Credere per guarire. Riflessione sull’efficacia terapeutica e sull’efficacia simbolica”).
Ma quali sono le caratteristiche principali di quella che è a tutti gli effetti una religione e non la “semplice” pratica magica (associata alla magia nera) che viene mostrata da cinema e televisione?
La bambola trafitta dagli spilli, essendo stata assunta nell’immaginario collettivo come simbolo della massima potenza della fattura, rappresenta il tipico esempio di questo malinteso, insieme a pozioni e talismani che sono diventati frutto della commercializzazione di questo immaginario. Tutto ciò fa parte di quell’insieme di fattori che dimostrano quanto il vodu sia una religione materica che non distingue tra immanenza e trascendenza e dove la pratica prevale sull’aspetto discorsivo.
L’approssimativa rappresentazione cinematografica infine sembra quasi aver rimbalzato da una costa all’altra dell’Atlantico e nel suo ritorno in patria ha dato origine, in paesi come Ghana e Nigeria, addirittura ad un filone cinematografico di stampo horror. Come ricorda Alessandra Brivio, i film horror africani sono sia un modo per mettere in scena le inquietudini della società contemporanea, sia un canale utile ai leader religiosi per trasmettere il proprio messaggio contro la religione tradizionale [cfr. Brivio, in Pavanello e Vasconi, 2011].
L’etimologia della parola è ancora oggetto di controversie ma è molto probabile la sua derivazione dalla lingua fon, parlata in Benin, Nigeria e Togo. L’antropologo e missionario Bruno Gilli ci informa come il vodu sia anche chiamato hou, che in fon è il termine utilizzato per indicare il sangue, elemento estremamente presente nella pratica, nonché costituente la radice di molti termini legati al culto: ad esempio come sinonimo di vodu-no, il capo del vodu, molto spesso si usa hou-no che può essere tradotto letteralmente come “madre” del vodu.
Oltre ad avere diverse denominazioni si tratta anche un termine polisemico, esso assume infatti, in base al contesto e ai vari modi di utilizzo, diversi significati e funzioni.
Vodu sono le singole divinità invisibili, i rituali, i saperi, gli oggetti prodotti dall’uomo o dalla natura abitati dagli dei, gli antenati e gli eroi fondatori di lignaggi importanti, inoltre gli stessi adepti vengono definiti vodu nel momento in cui dèi e spiriti si impossessano del loro corpo (per chiarire questo punto può essere utile visionare il nostro articolo sulla possessione africana).
Lo studioso Bernard Maupoil propose una suddivisione dei vari vodu in base alla loro origine: quelli regali, introdotti dai re dopo la vittoria nelle campagne militari (in pratica assorbendo quelle dei popoli locali assoggettati), i culti locali antichi e infine quelli “comprati” dalle popolazioni alleate.
August Le Hérissé a sua volta fu il primo ad introdurre il concetto di “famiglia” e pantheon vodu, individuando ben nove vodu principali e quattro categorie di sacerdoti.
A seguire i coniugi Herskovits proseguendo l’approccio di Le Hérissé, affermarono che le varie divinità erano divise in gruppi formanti i rispettivi pantheon e che il fedele, venerando un vodu e quindi il suo pantheon, poteva dirsi appartenente ad una “chiesa” specifica vera e propria.
L’antropologo Marc Augé nel 1988 mise a sua volta in evidenza lo stretto rapporto che vi è tra il corpo degli dei e il corpo degli uomini, soffermandosi sul quello del re: il corpo del sovrano non è solo espressione di regalità e potere ma è anche sinonimo di divinità e viene trattato, alternativamente o anche nello stesso momento, in maniera ambivalente, ossia come trascendente i propri limiti o come un “quasi-oggetto” con limiti ben precisi [cfr. Augé, 2002].
Lo studioso ha inoltre riproposto il concetto di “famiglia” vodu esponendolo in termini durkheimiani, cioè indicando come un singolo vodu simbolizzi l’intero gruppo che lo venera, tuttavia nonostante lo rappresenti, identifichi e unifichi introduce al suo interno anche alcune discriminazioni: ci sono infatti i semplici fedeli e coloro che si occupano del dio, gli iniziati e i non iniziati. La stessa gerarchia delle divinità si riflette in quella sacerdotale, «insomma la presenza massiccia e localizzata del vodu comporta delle pratiche che mettono in moto il sistema delle differenze sociali e costituiscono l’occasione per la loro espressione» [Ivi, p.39].
Al centro della pratica c’è il cosiddetto feticcio ed è proprio questo elemento ad aver determinato il famoso “malinteso della bambolina”.
Ma cosa è un feticcio?
Il termine è di origine portoghese, feitiço, che a sua volta deriva dal latino factitius: artificiale, innaturale, finto o fittizio. Il termine è stato usato da molti studiosi come chiave di lettura del fenomeno, condividendo l’idea che il feticismo comporti la confusione di qualcosa di umano con qualcosa di non umano o qualcosa di animato con qualcosa di inanimato. Un feticcio è sempre sacralizzato e, in quanto legato ad un evento irripetibile, rappresenta tutto ciò che non rientra nell’ordinario o che sfugge al sistema.
Sotto l’aspetto materiale i feticci sembrano non appartenere a nessuna categoria in particolare ma tutti rientrano nella definizione di objet trouvé (oggetto trovato), oggetti che hanno colpito l’immaginario di chi li ha trovati. Nel vodu il caso svolge un ruolo importante ma perché l’incontro tra uomo e oggetto sia proficuo è necessario che si tratti dell’individuo e del momento adeguato, proprio come se l’oggetto si offrisse in regalo alla persona [cfr. Brivio, 2012]. Trovare un feticcio è un avvenimento non prevedibile che cambia definitivamente sia l’uomo che l’oggetto, l’uomo riconosce nell’oggetto qualcosa che sente appartenergli e così l’oggetto comincia il suo percorso: esso si è fatto trovare e deve restare unito a chi l’ha trovato modificandone definitivamente l’esistenza.
Ciò che unisce i feticci è il modo in cui vengono conservati e trattati: sono molto spesso impacchettati, avvolti da tessuti e nascosti. L’essere, almeno in parte, occultati alla vista, circondati da tabù o che ne venga regolata l’apertura e la chiusura attraverso complessi rituali di manipolazione appaiono come caratteristiche essenziali. Il valore del feticcio sta proprio in questa sua contraddizione di essere accessibile ma allo stesso tempo inaccessibile.
Il culto di cui il feticcio è oggetto ha lo scopo di propiziarsi lo spirito che vi è incorporato ma anche favorirne l’abbandono nel caso in cui si dimostri inefficace nell’assicurare al devoto il successo. Questa inefficacia tuttavia viene talvolta attribuita anche alla spontanea fuga dello spirito dal feticcio provocata dall’uomo con offerte non gradite o per aver trascurato a lungo la cura del feticcio, oppure al fatto che l’avversario possa essere dotato di un feticcio più potente.
Gli dei, in quanto oggetti, possono anche morire, per fare ciò basta negargli le offerte, provocarli dando loro cibi e bevande interdette o distruggerli dopo averli dissotterrati. Il feticismo quindi non aspira a dominare in generale le forze della natura ma mira ad assicurare all’uomo la protezione della forza sacra racchiusa nel feticcio medesimo cercando di ottenerne il favore.
Il vodu non è rimasto così inalterato come può sembrare da un’analisi superficiale, ma ha subito mutamenti e adattamenti temporali creando delle sfumature tra i concetti di tradizione e modernità. Uno dei culti più recenti, praticati oggi in Togo e in Bénin è il gorovodu dove goro è la parola del locale linguaggio musulmano usata per indicare la noce di cola. Tale riferimento al mondo musulmano è già un esempio che mette in mostra le pratiche mutuate sia dall’Islam sia dal Cristianesimo, quindi alcuni aspetti sincretici propri del culto.
Definendo il gorovodu “moderno” i fedeli aspirano ad un nuovo statuto sociale ed economico per la propria fede, ossia una posizione più favorevole agli occhi del mondo che gli permetta di uscire da una situazione di marginalità.
Freud nel 1929 descriveva la modernità (intendendo la civiltà) come quel qualcosa che ha obbligato l’uomo a dover scegliere tra il principio di realtà e il principio di piacere. L’uomo moderno ha scelto la realtà, in questo modo gli sono imposti dalla civiltà tre valori: la bellezza, che si manifesta attraverso l’armonia della forma, l’ordine, attraverso la ripetizione di un modello stabilito da una norma e infine la pulizia, necessaria in quanto la sporcizia è estranea ad ogni tipo di civiltà [cfr. Freud, 2012]. Per quanto riguarda il gorovodu esso entra pienamente in questo modello accettando una modernità portatrice di pulizia e ordine, elementi che fungono da strumenti indispensabili per uscire da una situazione di insicurezza.
I santuari sono uno dei primi aspetti nei quali si può ritrovare questo slittamento verso la semplificazione e l’ordine, partendo dalle piastrelle bianche che rivestono pareti e altari, simbolo di modernità e pulizia la cui superficie liscia sembra voler dare l’idea di un culto lineare e accessibile a tutti, fino ad arrivare agli oggetti stessi, chiamati comunemente tron. Rispetto ai feticci dei vodu tradizionali si differenziano enormemente almeno per quanto riguarda l’aspetto superficiale: il feticcio è in continua trasformazione ed espansione a causa delle offerte di sangue animale e altri materiali che vi vengono riversate sopra, nel gorovodu invece il sangue è l’unico materiale che viene utilizzato, creando così una patina scura ed uniforme che contribuisce a comunicare il senso di ordine e razionalità che i fedeli vogliono trasmettere. Una superficie “pulita” e lucida che però al suo interno nasconde un elemento di caos.
Bibliografia
Augé, M., Il dio oggetto, Meltemi, Roma, 2002
Brivio, A., Il vodu in Africa. Metamorfosi di un culto, Viella, Roma, 2012
Brivio, A., “La dinamica vodu in Benin: politica e pratica religiosa”, in Pavanello, M., e Vasconi, E., (a cura di), L’Uomo. Società, tradizione, sviluppo, vol. 1-2, Sapienza – Università di Roma, 2011
Faldini-Pizzorno, L., Il vodu, Xenia Edizioni, Milano, 1999
Freud, S., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, 2012
Gilli, B., “Approccio alla nozione di vodu”, in Parodi da Passano, G., (a cura di), Évhé-Ouatchi: un’estetica del disordine, 2004
Nassetti, R., Magia vaudou. Magia nera africana e haitiana, i rituali, gli zombi, Roma, Edizioni Mediterranee, 1988
Valeri, V., “Feticcio”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Giulio Einaudi editore, Torino, 1979