A partire dagli ultimi mesi si è diffusa nell’opinione pubblica l’idea secondo la quale vi sia la necessità di impartire, attraverso percorsi militari obbligatori, l’educazione alla moderna generazione del 2000, spesso considerata come un branco di giovani indisciplinati, nullafacenti e desiderosi di fuggire all’estero per “scampare” ai disordini lavorativi causati in larga parte da rigide dinamiche clientelistiche, dall’”ammodernamento” informatico dei mezzi di produzione nonché da una debole politica del lavoro. Da dove deriva questa convinzione?
Come si è giunti a ritenere che la disciplina possa essere appresa con le imposizioni quando sappiamo che ciò che indispettisce maggiormente i giovani è proprio quel senso di potere inappellabile?
Per l’appunto, nel Regolamento della disciplina militare infatti, si legge questo: l’educazione dei giovani deve essere intesa come un’obbedienza assoluta, una sottomissione e una subordinazione dell’inferiore nei confronti del suo superiore, senza nessuna esitazione anche qualora vi sia un ragionevole dubbio di essere ingiustamente punito (parte 1, SUBORDINAZIONE, n.11, 12, 13).
Qual è la posizione dei professionisti dell’Educazione?
Al di là dei doveri morali a cui i militari giurano volontariamente di prestare osservanza, dell’ordine meticoloso di mettere tutto sempre al proprio posto, concetti come subordinazione e sottomissione sono poco compatibili con l’educazione con cui si intende la capacità di “tirare fuori” quello che abbiamo edificato precedentemente. Si suppone quindi che non ci possa essere educazione senza trasmissione di valori etici e abitudini affettive da parte di genitori, caregiver o di educatori durante il processo di crescita, a partire dall’infanzia. Sulla scia di una secolare tradizione rappresentata da pedagogisti come Decroly, Claparède, Ferrière, Montessori e Dewey, i migliori risultati ottenuti in termini di educazione derivano da metodi attivi, la cui efficacia potrebbe definire un vero e proprio manifesto educativo (Goussot A., 2005).
Proprio in base a queste esperienze di Pedagogia Scientifica, l’educazione e quindi l’obbedienza, il rispetto delle regole, il senso patriottico e la solidarietà sociale non sono valori che si insegnano dalla cattedra come una lezione di storia né possono essere imposti da generali, comandanti e ufficiali vari che esercitano la loro autorità. I giovani soldati, i militari che scelgono questa strada per lavoro, si occupano di difendere l’ordine pubblico, possono vigilare su traffici illeciti, scovare i “cattivi” nelle strade di notte, ma non propriamente queste attività hanno a che fare con l’educazione. Senza dubbio l’educazione dei giovani necessita di autorevolezza ma, l’autorità necessaria non si estorce attraverso comandi e sentenze, bisogna ottenerla con metodi indiretti!
Per questo in ambito pedagogico si parla di autorità nella sua accezione di autorevolezza ossia un ruolo paragonabile alle imprese più eroiche, ad una virtù umana degna di ambizione. Questo ruolo deve essere conquistato, assegnato ad una persona o ad un’istituzione in base a ciò che svolgono per il bene sociale e personale: i giovani accordano autorità quando si sentono protetti senza dover proteggere, difesi senza dover difendere, tutelati senza tutelare essi stessi.
Come si ottiene l’obbedienza?
Esistono, secondo il pedagogista Raffaello Lambruschini, alcuni punti che bisogna osservare per acquisire la stima necessaria che spinge a riconoscere l’autorità di un genitore, di un educatore oppure di un vero leader:
- le opinioni personali e i consigli non devono essere rivolti in modo diretto, ma dedotti da ragionamenti generali ed esempi;
- il rimprovero deve essere pronunciato in modo giusto e imparziale: i giovani riconoscono le manchevolezze e i difetti e, anche se ne saranno mortificati (nonostante i termini severi e rigidi) ne capiranno il buon senso;
- i giudizi devono essere emessi in maniera negoziata, ragionata, dopo aver esposto le conseguenze di un dato comportamento;
- i rimproveri non devono essere frequenti: lamentarsi continuamente, dimostrarsi spesso insoddisfatti, alzare la voce oppure sospirare per ogni piccola imperfezione renderebbe fastidioso la percezione stessa del richiamo;
- alternare il tono del rimprovero: incoraggiante, famigliare, formale, evidente, ragionato, velato;
evitare di rammaricarsi mostrando rispetto: in qualunque situazione, i discorsi devono fornire stima e benevolenza e infondere fiducia; - evitare promesse non realizzabili;
- non deridere in modo continuo le imperfezioni morali e naturali (Verrucci G., 1974).
Ci sono alternative educative?
Quando l’educazione non viene intesa come un modo passivo di ubbidire né tantomeno trasmessa attraverso schemi predisposti e decisi a priori, sul piano sociale essa si acquisisce con l’esperienza quotidiana e diretta; nel Servizio Civile ad esempio, nel Corpo di Solidarietà Europea e in tutte quelle attività educative formali e informali con anziani, diversamente abili, minori ospedalizzati. La responsabilità politica che gli stessi giovani hanno richiesto, protestando contro l’eventualità di riattivare il servizio militare obbligatorio, sarebbe quella di attuare e sviluppare maggiormente politiche educative che coinvolgano la grande comunità di professionisti dell’educazione dell’area socio-pedagogica. Quanti progetti di sostegno giovanile e di supporto genitoriale vengono attuati sistematicamente! Nella marginalità, nelle strade, nei servizi socio-educativi i professionisti dell’educazione lavorano con i giovani anche quando la personalità è già formata, cercando di far “scoccare” nel loro animo la flebile scintilla della solidarietà, della tolleranza, dello scambio umano.
L’obbedienza è un impulso innato.
Se il “nemico da combattere” è costituito dai fenomeni imperanti di individualismo e narcisismo giovanile, sostenuti anche dagli atteggiamenti dei genitori i quali si trovano impreparati a gestire la complessità educativa dei propri figli, bisogna convenire che vi sono diverse metodologie pedagogiche adatte a indirizzare gli impulsi giovanili verso i bisogni umani, adattandoli al senso di solidarietà sociale e di appartenenza ad una patria. L’educazione all’obbedienza, a quella che Maria Montessori definiva la volontà cosciente dell’obbedienza, è un lento processo evolutivo che si forma per piccoli gradi, poiché deve essere costruito come un argine, mattone dopo mattone. Inizialmente essa è governata da un impulso universale (horme), un principio vitale, innato e istintivo che matura e sale al gradino della volontà attraverso la pratica sul campo, l’esperienza e il ragionamento. Con la ragionevolezza si compie il passaggio alla volontà di obbedire: quando si ripone stima nei confronti dei giovani, riflettendo sulle situazioni, sugli eventi, comunicando opinioni sul significato delle azioni giuste e sbagliate, la loro mente unisce ragione e sentimento, si arricchisce e la volontà si fa pronta ad accondiscendere.
Bibliografia
Verrucci G. (a cura di), (1974), Scritti pedagogici/ di Raffaello Lambruschini, Unione tipografico Editrice, Torino
Montessori M., (1952), La mente del bambino: mente assorbente, Garzanti, Milano
Oliverio A. (2008), Geografia della mente. Territori cerebrali e comportamenti umani, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Sitografia
http://www.regioesercito.it/regioesercito/redoc/manumil1.htm
https://europa.eu/youth/solidarity_it
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/8204/821213-1195207.pdf?sequence=2
Goussot A., Dewey oggi: la pedagogia possibile e l’utopia dell’educazione democratica, in Educazione Democratica, Anno III, numero 5, gennaio 2013