L’empatia non serve più!

Immaginate di ascoltare un amico/a parlare di un problema che lo/la affligge, siete molto legati e vi pare di percepire e comprendere la sua sofferenza, il suo stato d’animo e i suoi pensieri. Magari avete anche affrontato questo problema in passato e dunque vi sembra – a maggior ragione – di capirlo bene e di avere con voi le risposte per aiutarlo/a. Questo perché provate una forte empatia, vi mettete nei “panni dell’altro” e nella sua situazione.

Anche in ambito educativo, l’empatia è una competenza ritenuta ormai essenziale. Ma è davvero necessaria? Ci sono dei rischi o ci possono essere anche modi differenti per stare in relazione con l’altro?

Con il termine empatia si intende la capacità di immedesimarsi con gli stati d’animo e con i pensieri delle altre persone, sulla base della comprensione dei loro segnali emozionali, dell’assunzione della loro prospettiva soggettiva e della condivisione dei loro sentimenti (Bonino, 1994). In questo senso, ci si avvicina al sentire e ai pensieri altrui – mettendo da parte se stessi e la propria prospettiva – nel tentativo di comprenderlo.

Ma è davvero possibile sentire insieme all’altro esattamente quello che sta provando?

Il filosofo Ortega y Gasset mette in luce l’impossibilità di immedesimarsi completamente nell’altro: «Se all’altro dolgono i denti, mi è chiara la sua fisionomia, l’immagine dei suoi muscoli contratti, lo spettacolo insomma di qualcuno afflitto dal dolore, ma il suo mal di denti non è mio…Il dolore di denti del prossimo è, in ultima analisi, una supposizione, un’ipotesi o presunzione mia, è un presunto dolore. Il mio dolore invece è indiscutibile» (Ortega y Gasset, 2016, p.56).

Questo può essere un primo elemento da tenere in considerazione e su cui riflettere, ma qui non sarà approfondito perché si vuole invece porre l’attenzione – proprio perché inerente al lavoro educativo – sull’assunzione della prospettiva dell’altro. Infatti, provando a immedesimarci nell’altro, assumiamo il suo punto di vista, allontanando però il nostro. Così facendo, seppure lui/lei si potrà sentire compreso/a e accolto/a, il rischio è quello di rimanere sempre e solo all’interno dell’orizzonte di senso dell’altro, senza invece ampliarlo o modificarlo. In questo senso, non si mette in discussione la cornice dell’altro (Bateson, 1977), ovvero quelle premesse implicite e presupposti che direzionano i nostri modi di fare e le nostre scelte.

Proviamo a fare un esempio per rendere più chiaro questo concetto, e vediamo in che modo è possibile affrontare la situazione:

Un/a ragazzo/a vi dice che vive un rapporto difficile con il padre, non riesce a parlarci, è il capofamiglia a cui non si può contraddire niente, lui/lei lo rispetta però non è a proprio agio; a volte inventa bugie e questo lo/la ha aiutato/a resistere, altre volte asseconda le sue richieste, crede che sia comunque un buon padre, ma vi riporta la sua sofferenza. Se rispondiamo in maniera empatica, percepiremo la sua fatica e il suo malessere nel rimanere in questa situazione, proveremo a capire la scelta di dirgli bugie, e gli/le riporteremo che viene però considerato come un buon padre che sta facendo quello che riesce. Ma, se rimaniamo nei panni dell’altro, allora, ci perdiamo una sua premessa implicita: il capofamiglia non può essere contraddetto e non ci si può confrontare con lui.

A questo punto, potremo invece ampliare e modificare i suoi presupposti dati per assodati e scontati, aggiungendo il nostro punto di vista. Porremo l’attenzione sul fatto che per lui/lei non è concepibile – è scontato, direbbe Sclavi (2003) – parlare con il capofamiglia. Portiamo così il nostro orizzonte di senso, ci confrontiamo con lui/lei ed è proprio in questo scontro di cornici – di prospettive differenti – che si può generare un cambiamento, a cui l’altro non aveva pensato. Questo è un passaggio differente; è passare dall’empatia all’exotopia.

L’exotopia e lo scontro di cornici come alternativa

L’exotopia – diversamente dall’empatia – corrisponde all’accettazione dell’altro in quanto necessariamente diverso da me, sia nel modo di sentire sia nell’orizzonte di senso che porta (Bachtin, 2000). In questo senso, allora, riconoscendo l’altro nella sua unicità, è essenziale il confronto, in cui si portano i propri punti di vista, perché è proprio da questo “scontro” che si può generare un nuovo apprendimento.

Infatti, come dice Sclavi, nello scontro di cornici si può provare anche fastidio (“mi sta dicendo che non parlo con mio padre perché è il capofamiglia?”) ma è proprio qui che si possono modificare – e vedere chiaramente – i modi di fare dati per assodati; così facendo, non si troveranno più soluzioni solo all’interno della solita cornice (“posso dirgli bugie oppure assecondarlo”) ma si amplierà la stessa (“posso anche confrontarmi con lui”). In questa prospettiva, l’idea è che solo nel momento in cui divento consapevole delle mie cornici, posso scegliere di uscire da queste  (o di modificarle) e dunque arrivare a un cambiamento e a un apprendimento differenti.

Allora forse – come professionisti del lavoro educativo – più che discutere sui termini (empatia o exotopia), c’è da chiedersi in che modo crediamo possa avvenire un apprendimento nella relazione con l’altro, senza dare per scontato – appunto – che essere empatici sia la scelta migliore.

«Quello che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista» (Sclavi, 2003, p.63)

Silvia Serena Brambilla

Info

Bibliografia

Bachtin Michail, L’uomo e l’autore, Einaudi Editore, Torino 2000

Bateson Gregory, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977

Bonino Silvia, Empatia. I processi di condivisione delle emozioni, Giunti Editore, Firenze 1998

Ortega y Gasset José, L’uomo e la gente, Mimesis editore, Sesto San Giovanni 2016

Sclavi Marianella, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano 2003

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