“Ehi, bella, dove vai? Sei stupenda, vieni qui.”
A quante donne è capitato di sentirsi appellare in questo modo per strada? Inutile provare a descrivere la sensazione di estremo fastidio che assale e che subito si cerca di scacciare via ogni volta. Ma perché la si prova? Perché è una celata aggressione verbale, perché è invasiva dello spazio altrui, perché oggettifica e soprattutto lascia trapelare l’idea che l’uomo sia in una posizione che giustifica questo tipo di comportamento.
Alcuni agiranno la stessa dinamica in maniera più sottile, commentando a bassa voce fra loro, riferendosi alle donne come a qualcosa che devono “farsi, sbattersi e a cui dare una botta” (ndr). Se poi per caso si prova a ribattere per le rime, la risposta risulta facilmente essere: “non ho detto nulla di male, mi pare un complimento. Dai, ridi un po’, permalosa”. Una violenza sottile, che quasi costringe a rimanere in una posizione subordinata: o ne ridi con loro, stai al gioco, oppure vieni squalificata come interlocutrice, additata come acida; ed ecco che quello che viene a crearsi è un poco affascinante “doppio vincolo” (Bateson, 1972) comunicativo e relazionale, da cui è impossibile slegarsi senza provare umiliazione.
Questa è solo una delle dinamiche che oggi intercorrono tra i sessi, o per meglio dire “generi”, che società, cultura ed educazione hanno più o meno consapevolmente contribuito a generare.
Di cosa si sta parlando?
In primo luogo, di mascolinità tossica: è un concetto che si usa per definire comportamenti offensivi e nocivi e atteggiamenti che vengono comunemente associati agli uomini, come ad esempio la necessità di reprimere le emozioni durante situazioni stressanti e l’agire in maniere aggressive e predominanti sugli altri. E’ un termine coniato per la prima volta dalla psicologa Shepherd Bliss negli anni 80’ e 90’ e che promuove la mentalità dell’ uomo “macho”, forgiato da aggressività, misoginia e forza. Una mascolinità culturale, sociale, che incoraggia gli uomini ad essere “veri uomini”, duri e che non mostrano paura, men che meno emozioni eccetto la rabbia. L’uomo, dunque, si definisce dal grado di violenza che sa esercitare, dalla vita sessuale che conduce, dallo status e dall’aggressività (Barr, 2019).
Ne consegue, per gli uomini che ne sono vittime, una serie di comportamenti atti a mostrare queste caratteristiche all’interno dell’interazione sociale, mai cooperativa e sempre competitiva: esasperare comportamenti di apprezzamento verso il sesso femminile, squalificare il “non-maschile”, nel migliore dei casi in maniera semplicemente più sottile ma comunque riconoscibile, come il Mansplaining (atteggiamento paternalistico, coniato dalla giornalista e scrittrice Rebecca Solnit).
Quali sono le possibili conseguenze di questo tipo di educazione?
Seguendo semplicemente una correlazione logica, poi perpetrata da numerosi studi in corso nel settore della pedagogia di genere (Leonelli, 2011) e casi di cronaca, da una squalifica del non-maschile sarà facile giungere all’omofobia. Da un’affermazione di violenza ed aggressività, potrebbe essere ugualmente semplice arrivare al bullismo, alla violenza di genere, allo stupro se non al femminicidio. Ma la mascolinità tossica, non danneggia solo l’altro sesso: anche l’uomo ne è vittima, trovandosi nella posizione di dover essere una “stoica macchina del sesso”, allergico alla tenerezza e alla vulnerabilità. Gli uomini che non rientrano negli standard del machismo sono infatti definiti delle femminucce.
Si tratta di stereotipi di genere che seguono e stigmatizzano i bambini fino all’età adulta, costringendoli, il più delle volte, a soffocare aspetti del loro carattere che non rientrano nella “categoria uomo” strutturata dalla società. Soddisfare l’idea di uomo scelta dalla società è una notevole fonte di stress, che ha ripercussioni sia fisiche che mentali (si tenga presente lo scopo degli Studi Genere: offrire prevenzione per tali fenomeni).
“We don’t raise boys to be men. We raise them not to be women, or gay men.” (Don McPhearson, The Mask you live in) “Non cresciamo i ragazzi per essere uomini. Li cresciamo per non essere donne o gay.” E questo processo comincia con molti ragazzini, a cui è insegnato che saranno puniti se faranno qualcosa da “femminucce”, come giocare con le bambole o semplicemente piangere, o persino preferire una buona lettura al fare una rissa.
Uomini e donne: un’identità precostituita?
Ed è qui che entrano in gioco l’educazione implicita ed esplicita. Fino ad oggi, l’educazione di genere è sempre stata polarizzata attorno ai due ideali di maschile e femminile, accuratamente selezionati ed istituiti dalla società patriarcale e a cui tutti devono rifarsi, pena l’emarginazione e la discriminazione. Nemmeno la donna ne risulta esente, andando a configurare degli atteggiamenti tipici di quella che sembra una femminilità tossica: ci si riferisce a quelle convinzioni per cui una donna deve per forza trovare un uomo per sentirsi completa, avere un figlio, sposarsi per sentirsi realizzata. Che pretende di trovare un compagno che sia conforme alle caratteristiche del “vero uomo”, che deve portare i soldi in casa, pagare la cena, occuparsi di “cose da uomini” che le faccende di casa e la prole sono di dominio femminile. La convinzione quindi, che solo la donna è qualificata come caregiver, che l’uomo non è fatto per occuparsi di bambini e non è in grado di comprendere una donna fino in fondo: la “vera donna” è complessa, delicata, gentile, empatica e soprattutto sembra tendere al rigettare tutto quello che è “non-femminile” con aggressività.
Anche in questo caso, è facile intuire come una donna che necessita di un marito e un figlio per sentirsi completa, avrà facilmente quello come scopo di vita, magari in barba a una realizzazione lavorativa e carrieristica. Dovendo sempre essere dolce, gentile e mai arrabbiata per sembrare “femminile”. La donna che deve occuparsi della casa e dei bambini, potrebbe non favorire né la parità di genere, né garantirà al figlio di sviluppare un solido legame affettivo ed emotivo col padre, proprio in virtù del comportamento istituzionalizzato che si ostinerebbe a mantenere; così come l’uomo al contrario, potrebbe negarsi una completezza dello spettro emozionale, non senza conseguenze sulla capacità di gestire funzionalmente le emozioni stesse.
Questa perenne danza di “maschile” e “femminile”, costruiti da una società educante e suoi mass media, concorre ancora oggi quindi a terribili risvolti: sessismo, maschilismo, femminismo estremo, bullismo, discriminazione del diverso, aggressività ingiustificata, violenza verbale e fisica, femminicidi ed in generale al mantenere un modello educativo non funzionale. La cronaca ne è piena. E’ imperativo allora intervenire alla base – «Io chiamo ciò che facciamo ai nostri uomini e ragazzi – dice l’educatrice Caroline Heldman – “la grande trappola”. Alleviamo i ragazzi per farne degli uomini la cui identità è basata sul rigetto della femminilità e poi ci sorprendiamo se non considerano le donne esseri umani. Quindi li intrappoliamo. Prendiamo i ragazzi e ne facciamo uomini che non rispettano le donne a livello profondo e poi ci chiediamo perché la cultura dominante sia questa» (The mask you live in, 2015)
L’identità di genere maschile – sostiene la professoressa Chiara Simonelli – si forma attraverso un percorso discontinuo che ha come fulcro la necessità di differenziarsi dal mondo femminile materno, compito che richiede aggressività e la necessità di vigilare costantemente sul risultato ottenuto per non ricadere nella dipendenza e nella simbiosi dei primi mesi di vita. L’immagine corporea si focalizza sul pene e l’esperienza sensoriale sull’erezione come costitutive di un’identità specifica e valida. In ogni età della vita troveremo l’espressione del bisogno degli uomini di insistere sulla propria virilità e di prendere le distanze dalla femminilità, ad esempio come forma di disprezzo per l’omosessualità maschile omologata simbolicamente alla passività femminile (Simonelli, 2003). “L’operazione da compiere è […] di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene” (Gianini Belotti, 1973:8)
E’ fondamentale perché ognuno di noi merita di sentirsi una persona integra, completa, capace di amarsi al di fuori di un “affetto sociale” condizionato dalla prestazione stereotipica. Sostenere gli studi di genere in campo psico-sociologico e la pedagogia di genere dovrebbe essere un diritto ed un dovere: c’è una libertà da conquistare fuori dalle rigide definizioni di virilità e femminilità. E’ prima di tutto una lotta per le pari opportunità, per la correttezza e una tutela per la diversità che fa del bene alla mente e al corpo: ci sono infiniti modi di essere “uomo” e “donna”, quelli che ci sentiamo di abitare e che ci appartengono; quelli che non ci costringono gli uni contro gli altri, ma ci spingono all’accettazione, alla cooperazione a una società sana e “giusta”.
Bibliografia
Bateson, G., Jackson, D.D., Haley, J., Weakland, J.H. (1956), “Verso una teoria della schizofrenia”, in G. Bateson (1972), Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi
Gianini Belotti, E., (1973), Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Feltrinelli
Brambilla, L. Divenir donne: l’educazione sociale di genere, ETS, 2016
Connell, R. and Messerschmidt, J. (2005). Hegemonic Masculinity. Gender & Society, 19(6), pp.829-859.
Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio
Leonelli, S. (2011) “Ricerche di Pedagogia e Didattica”, in Pedagogia di Genere 6.1
MacCormack, C., Strathern, M., Nature, Culture and Gender, Cambridge U.P., New York, 1980
Kimmel, M.S. (1997), Masculinity as homophobia: fear, shame and silence in the construction gender identity, In M.M. Gergen & S.N Davis (Eds.) Toward a new psychology of gender. (pp.223-242). New York: Routledge.
Pharr, S. (1988), Homophobia: a weapon of sexism, Inverness, CA: Chardon Press
Simonelli, C.. “Il difficile percorso dell’identità maschile: indicatori di rischio e prevenzione”, in ResearchGate, Jan 2003
Sitografia
Barr, S. (2019). What is toxic masculinity?. [online] The Independent
Video di riferimento
The mask you live in, Documentario, 2015
oggi gli uomini se vogliono piangono eccome, forza, aggressività, fragilità sono maschili e femminili e vanno incanalate. il desideroo di trovare qualcuno da amare e sposarsi è comune a uomini e donne e di per sè non è cattivo
Buonasera, grazie per il suo commento. Naturalmente nell’articolo si parla di estremismi empirici, di “tossicità” di espressione che alcuni presentano, legati ad una educazione di genere stereotipata e coercitiva. Non ci interessa giudicare e/o generalizzare, tant’è che in conclusione parliamo di mille modi di essere uomini e donne, da vivere senza condizioni e senza condizionamenti. Ci sono, come lei sostiene, uomini che piangono, uomini e donne che desiderano sposarsi e non c’è nulla di male, così come non c’è male in una donna che preferisce fare carriera piuttosto che avere figli, o in un padre che sceglie di prendere aspettativa per occuparsi di un neonato. Da “incanalare” non c’è nulla.. se non la libertà di poter scegliere di essere ciò che ci sembra giusto essere, che ci fa star bene e quindi di auto-determinarci oltre il giudizio della gente. – Dott.ssa F. Mozzali
Carissima Dott.Mozzali, mi esprimo così perché sono mamma di una sua alunna.
Ho letto con avidità il suo trattato e mi sono soffermata molto rileggendo più volte sulla mascolinità tossica. Faccio parte da alcuni anni di una associazione contro la violenza alle donne e da sempre mi manca un anello per comprendere perché un uomo può arrivare a fare tanto male. Tanti studi sono stati fatti, qualcuno ha detto che chi agisce la violenza non ha scuse. Giusto. Ma come cresciamo noi i nostri figli, dove respirano quest’aria? Mi ha illuminato di qualcosa che già sospettavo ma ora ho due termini che ho sentito poco e cioè mascolinità tossica e femminilità tossica. Per ora solo un grazie ma ci lavorerò su questo, c’è tanto da fare.
Gentilissima Signora Tiziana,
ci sarebbe tanto da dire riguardo le domande che porta e sugli interrogativi che lei stessa si pone. Temo che un commento qui non sia per nulla spazio sufficiente per dipanare la matassa. Per il momento sono contenta di averle offerto uno spunto di riflessione e la ringrazio per averlo colto, come persona e come genitore che, giustamente, si interroga. Già la sua curiosità apre lo spazio a delle possibilità altre, dato che come lei stessa sostiene, c’è ancora molto lavoro da fare e la preoccupazione che sente la sento anche io come professionista ed insegnante. Inoltre, trovare alleati per uno spazio di riflessione, in questa società che storicamente ci educa, è sempre qualcosa di utile. Mi auguro avremo modo di proseguire lo scambio e di incontrarci magari.
Cordialmente.
Dott.ssa Federica Mozzali