Oggi che la comunità sociale ha smarrito la condivisione di stili educativi e,mano a mano, ha reciso i rapporti intra-generazionali, quanto può essere incisiva la consulenza educativa ai genitori?
Genitori si diventa quando nasce un figlio; non ci sono scuole per questo, solo vissuti fatti di lasciti che tornano a ripetersi in maniera schematica, ignorando la diversità che ogni nuova generazione comporta, proprio perché inserita in un diverso assetto socio-culturale: le difficoltà si manifestano ben presto allora, anche dovutamente al passaggio che vede la coppia passare da “coniugale” a “parentale”; una transizione non da poco.
Si dovrebbe allora, noi operatori del sociale, privati, pubblici e liberi professionisti saper garantire a madri e padri un sostegno adeguato, che a partire dalle leggi 285/97 e 328/00 è di fatto obbligo istituzionale.
Parafrasando Josef Bleger, capire quale sia il punto di partenza per offrire un servizio di aiuto è semplice: non attendere che i clienti vi si rivolgano, ma cercare ed offrirsi a loro. Questo, risulta imprescindibile nel momento in cui “andare verso” è ancora più necessario; le famiglie oggi vivono chiuse in involucri narcisistici ed abbandonarli significherebbe provare profonda vergogna, anche a causa del fatto che non manca mai quell’atteggiamento di colpevolizzazione di chi li condanna e addita come causa di ogni male a priori. (Berto, Scalari, 2008)
Di fronte a tale ostacolo, l’andare in-contro al cliente deve essere propriamente con-tatto, fatto di ascolto aperto, attivo, fiducia e reciprocità, ma soprattutto deve essere promosso tempestivamente, per lavorare di prevenzione e non di riparazione.
La proposta tecnica prevede un background multidisciplinare, per meglio dire, psico-pedagogico. Lo strumento principe è infatti la Narrazione – strumento pedagogico, che tanto si avvale della teoria psicanalitica di Freud, quando permette di ricollocare il passato differenziandolo dal suo presente e ri-significandolo, come della pedagogia di Demetrio nell’idea che testimonia il potere educativo dell’apprendere ad apprendere (Bateson,1977) nel raccontare storie. Il racconto delle vicende personali diviene occasione per mamme e papà di interrompere sofferenze, bagaglio intragenerazionale mai disfatto, e che dunque rimane inconsapevole eredità imperitura. Il secondo strumento è il Setting, rigoroso ma flessibile: ci si avvale di spazi diversi di incontro, che siano ben inseriti nel normale ritmo familiare. (Molinari&Labella, 2007)Il fine degli incontri è proprio quello di ri-significare l’agire educativo familiare, insieme a loro, favorendo la lettura di certi schemi protratti e disadattivi (Carli, 2003) portatori di quei comportamenti stereotipati che Riviere, psichiatra, indica come base della sofferenza mentale di ogni bambino interiore e di cui i figli diventano depositari ingenui.Si dichiara dunque che i genitori devono formare il figlio, ma poi nessuno li sostiene in questo compito, certi della loro funzione educativa ma spesso non preparati di fronte alle imprevedibilità e l’innumerevole complessità di emergenze che questa comporta. “E’ complesso infatti individuare lo spartiacque tra ciò che è educare alla libertà e ciò che induce a non tenere conto degli altri, così come è difficile comprendere quando assecondare le tendenze originali del figlio e quando invece non bisogna farsi sopraffare dalle sue richieste.” (Berto, Scalari, 2008, p.38)Ecco perché, un terzo strumento imprescindibile è la consapevolezza. Ed in questo caso, parlo in primis di quella dell’operatore; è fondamentale che prenda coscienza della propria storia familiare in termini di emozioni e neoemozioni (Carli, 2003) perché questa non sia di ostacolo nella lettura del contenuto che il cliente porta con sé. Spesso, nel timore di essere non compresi, mamme e papà domandano se l’operatore stesso ha figli: la vera domanda dovrebbe però essere se anche egli è stato figlio a sua volta. E il figlio che l’operatore è stato ed è – la coscienza di ciò – che gli permette di mentalizzare i bisogni del bambino e lasciar entrare il vissuto del genitore senza respingerlo. (Berto, Scalari, 2008)
Fatto ciò, analizziamo il processo di consulenza in fasi, prendendo spunto dal formatore Berto e dalla psicoterapeuta Scalari:
1) L’incontro: è il luogo dove lo scambio umano ha luogo e in cui l’operatore si predispone all’ascolto e all’accoglienza, creando spunti di riflessione e in cui la narrazione favorisce la risignificazione di schemi utili ad aggiungere consapevolezza del proprio vissuto e di come questo possa influenzare lo stile educativo.
2) Il dialogo: è fatto di parole e anche osservazioni, di scambi diadici, triadici e di gruppo. La parola tuttavia è il mezzo tramite cui il consulente può ricondurre ogni genitore al suo proprio mondo emotivo, attraverso riflessioni attorno ai ruoli ed ai personaggi che quotidianamente vengono messi in scena a seconda del trasporto momentaneo, del contesto, dell’interazione. Le emozioni, il riuscire ad esprimerle, può risultare difficoltoso, costoso, destabilizzante: è importante allora che si costruisca uno spazio sicuro in cui poterle manifestare.
3) Il contenitore: qui torna l’idea di setting come contesto, che altro non è che un insieme di relazioni. Relazioni che devono divenire capaci di comprendere dinamiche emotive consapevoli, capaci di essere comunicate in maniera adattiva, funzionale agli obiettivi che ci si pone in quanto prima istituzione educativa. L’operatore può e deve fornire indicazioni in questo senso, favorendo la rivisitazione di quei climi relazionali inadeguati sottesi alla richiesta di aiuto.
4) Il colloquio: dopo aver ascoltato attentamente, è fondamentale arrivare al vero motivo per cui il sistema famiglia si presenta a noi. A volte ci si presenta con un tema che sembra accettabile, ma che cela un inespresso. Questo ci dice che non è mai una situazione indolore e semplice, quella del mettersi in discussione. L’interazione e l’indagine devono essere delicate e la restituzione comprensibile. Inoltre, ben più importante da tener presente è che nessun genitore trova soluzione ricevendo “cure”, o ricette preconfezionate; l’obiettivo è permettere a questi di raggiungere una propria autonomia e questo è possibile solo valorizzando le loro risorse e competenze. Non si danno consigli, non si danno consigli; si prova a indicare direzioni alla cui meta, però, arriva il cliente, con l’idea che sia lui (non il consulente) l’esperto di se stesso, del proprio stato emotivo e della costruzione del proprio mondo.
5) L’interpretazione: è la chiave tramite cui i modelli educativi, una volta compresi con consapevolezza evolvono grazie all’opportunità di essere, come già detto, narrati. Nei racconti viene mostrato che paure, preoccupazioni, ansie, aspettative e delusioni siano parte integrante dell’occuparsi di un figlio. Tuttavia appoggiarsi ad un consulente esterno, significa offrirsi la possibilità di un punto di vista preparato per mettere in luce il fatto che è proprio di fronte alla difficoltà, come vincolo, che può essere individuata, evidenziata, sviluppata una risorsa.
In conclusione, al consulente educativo, spetta allora il compito di attivare nuovi spazi per allenare i legami generazionali, dare parola al bambino, che vive dentro ciascuno di noi, soprattutto ai suoi bisogni, con l’obiettivo di creare maturità e consapevolezza come base per l’incontro con l’altro, che sia figlio o compagno.
Bibliografia
Bateson, G., (1977), Verso un’ecologia della mente. Adelphi.
Berto, F. e Scalari, P., (2008), ConTatto. La consulenza educativa ai genitori. La meridiana
Demetrio, D., (2012), Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura. Mimesis
Carli, R. e Paniccia, M., (2003), Analisi della domanda. Teoria e intervento in psicologia clinica. Il Mulino.
Molinari, E. e Labella, A., (2007), Psicologia Clinica. Dialoghi e confronti.